The Lion and the Wanderer

La mia seconda FF, una storia di amiciza e magia.

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    Eccomi di nuovo quà! Dopo la riuscita della mia prima FF, mi presento con qualcosa di nuovo. Stavolta di canonico ci sarà poco niente, e con essa, potrete dare il benvenuto al mio alter ego: L'Eremita.

    ATTENZIONE: TEMI SOVRANNATURALI IN QUESTA FF. SE NON VI PIACE, NON LEGGETE

    Posto il prologo, così mi dite cosa ne pensate.
    Prologo: L'anello
    La gaia canzone fa l'eco languir...
    E l'ilare suono si muta in sospir...


    Da quanto tempo mi trovavo in Africa? Ormai avevo perso il conto dei giorni.
    Quella mattina mi risvegliai al sonoro richiamo della domestica; avevo affittato lo studio soltanto da tre mesi, ed ero arrivato in Egitto da più di un'anno. La colazione fu semplice ma sufficiente per darmi le energie necessarie; avevo preso la mia decisione: era arrivato il momento di lasciare Alessandria.
    Pagai i danari di mancia alla domestica, e le dissi - cortesemente, mi auguro - di cominciare a preoccuparsi per se' stessa: alla sua età, doveva cominciare a fare i preparativi per la pensione, e anzi, sarebbe dovuta andarci molto tempo prima.
    Quel primo pomeriggio, cominciai a fare i bagagli: mi misi gli indumenti da viaggio, pantaloni, maglietta e mantella bianca per deflettere la luce del sole; mi aspettava una lunga scarpinata nel deserto, e anche seguendo il corso del Nilo, avrei patito il caldo a lungo.
    Nello zaino, abbastanza capace, tipico di noi eremiti, misi tutto l'occorrente: un ricambio di abiti, un taccuino e l'essenziale per il pronto soccorso, assieme a un termos che avevo riempito d'acqua direttamente dalla fontana, nella piazzola che sta vicino alla ferrovia.
    Assieme allo zaino, fissai sulla schiena l'arco, la faretra piena e la cassa, contente il mio tesoro più prezioso; era una scatola di mogano, lunga circa un metro, larga venti centimetri e profonda quindici, finemente decorata e chiusa con una sicura a stappo.
    Alla cintola appesi la mia scure e indossai gli stivali.
    Probabilmente direte che viaggiavo armato fino ai denti, ma è il costume dell'eremita: noi che viaggiamo alla ricerca di noi stessi, viviamo all'aperto, costretti a vivere di cacciagione, e spesso a misurarci gli uni contro gli altri, creando conoscenze, e viaggiando tra gli altri esseri umani.

    Passai per la piazza del mercato, cercando di essere il più cortese possibile: in quel continuo viavai la mobilità era piuttosto complicata, ma non impossibile; e il peggio avveniva con l'arrivo delle carovane. In quel periodo si scatenava il tipico caos organizzato dei grandi centri urbani nordafricani, come Marrakesh.
    Ovunque c'erano venditori che strillavano; si vedeva che mi apprestavo a viaggiare: chi mi voleva rifilare giare d'olio, chi voleva vendere bastoni da passeggio, chi addirittura voleva affibbiarmi un cammello a poco prezzo per viaggiare nel deserto, ma io rispondevo sempre allo stesso modo. Le mie gambe erano - e sono tuttora - resistenti alle dure scarpinate: me l'ero sempre cavata, e me la sarei cavata anche quella volta.

    Come fui uscito da Alessandria, mi orientai subito per localizzare il Nilo; lo costeggiai nelle prime ore del tardo pomeriggio, mentre i contadini esultavano, correndo come matti. Quella notte prima si era verificata Akhet, la piena del fiume: gli egizi lodavano Hapi il babbuino, incarnato del fiume, e Isis personificazione della luna, per aver benedetto la notte in cui le acque del Nilo avevano cominciato a salire. Al suo ritiro, il fiume avrebbe lasciato il limo sui campi, promettendo un raccolto abbondante.
    Ero felice per loro: almeno non avevano bisogno di cercare per essere lieti; loro sapevano chi erano, ed erano felici della loro identità.
    Io non ero così: fin da bambino mi sono sempre sentito fuori posto, come se la mia casa non fosse il luogo giusto per me; da quando i miei genitori sono morti, ho dovuto cavarmela da solo. Mia madre si uccise quando capì che non sarebbe stata in grado di proteggermi, e il mio vecchio morì quando i terroristi assalirono la nostra città: avevo dieci anni, e da allora sono un'eremita.
    Avevo raccolto tra le macerie un sacco di oggetti utili, tra cui il mio termos, e un particolare oggetto che aveva attirato la mia attenzione: un'anello dorato, il quale ostentava una perla anch'essa in oro bianchissimo; all'inizio l'avevo indossato, così per scaramanzia, ma non potevo immaginare le meraviglie di quel gioiello.

    Ebbi la capacità di sperimentarne gli effetti, quando incontrai un'uomo di colore, che si lamentava in francese: io non comprendevo quella lingua - ero solo un bambino - ma quando mi avvicinai, rimasi stupito nel sentire la sua voce parlare nel mio idioma. Provai ad avvicinarmi per chiedergli indicazioni. Mi disse di essere un affarista, mandato in rovina dall'incursione dei terroristi; non riuscivo a crederci: lui comprendeva la mia lingua come se parlassi nella sua! E io comprendevo come se parlasse nella mia!
    Agli inizi credevo di essere impazzito, ma nel corso degli anni, a furia di passare per lo stesso episodio, dovetti attribuire la causa all'anello: quel singolare monile mi aveva conferito il Dono delle Lingue. Potei confermarlo quando, per esperimento, mi tolsi l'anello dal dito, mentre ascoltavo un diverbio tra due meccanici olandesi: come levai il lucente cerchietto dalla mano, la mia comprensione della loro lingua svanì.

    Tutto ciò era al di là di ogni aspettativa: un'anello magico che permette di comprendere tutte le lingue umane del mondo: l'antico sogno di Babele, nella mia mano!

    Sono passati quasi undici anni, ormai: sono cresciuto, sono vissuto all'aria aperta per tanto tempo. Il mio aspetto è cambiato notevolmente; ho vagolato da nord a sud per tutta l'Europa per circa sette anni prima di andare in Turchia; da lì, arrivai in Palestina, ho visitato Gerusalemme e le terre bibliche di Canaan. Ho ripercorso a ritroso la strada degli ebrei fino in Egitto, all'epoca terra di esilio e di asilo. Ci avrò messo almeno tre anni per arrivarci, considerando le varie tappe che ho fatto, alla ricerca della risposta a quell'unica eterna domanda: "Qual'è il mio posto nel mondo?"

    Questi erano i pensieri che turbinavano continuamente nel mio cervello. Molte volte ho aiutato chi aveva bisogno di me, e mille e più volte sono stato benedetto da villici e signori, pensando a come si sentissero nelle loro identità sicure.
    Io avevo solo un nome che mi definiva, e non me ne sarei liberato tanto facilmente.
    Pronto all'ennesima scarpinata, e deciso a compierne altre mille per tutto il tempo necessario a comprendere la verità, cominciai a cantare quella bella serenata, tratta da quella meravigliosa Opera di cui non ricordo il nome.

    La gaia canzone fa l'eco languir...
    E l'ilare suono si muta in sospir...
    La la... La la... La la...


    Continua...
    Ditemi cosa ne pensate, e soprattutto se l'idea vi attira. Aspetto le vostre risposte


    Edited by Gaoh - 20/11/2014, 12:35
     
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  2. Somoya
     
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    Spettacolo, vita on the road, il mio sogno *.*, devi continuare assolutamente; l'idea del soprannaturale non mi dispiace affatto, ma esattamente in che epoca si svolge la storia ??

    p.s. aspetto il seguito ;)
     
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    Hmmm... forse non è il migliore dei lavori eh?
    Vabbuono; per il momento mi metto all'opera, e poi si vedrà.
    CITAZIONE
    Spettacolo, vita on the road, il mio sogno *.*, devi continuare assolutamente; l'idea del soprannaturale non mi dispiace affatto, ma esattamente in che epoca si svolge la storia ??

    Cito Shakespeare: "Quella notte, la dodicesima notte, la notte dell'epifania, oppure QUANDO VOLETE VOI"

    Può essere avvenuta poche settimane fa, o tra cento anni.
    Per chi vuole una data ufficiale, il giorno in cui l'eremita lascia Alessandria d'Egitto, è il 18 marzo 1996.

    Ma tornando a noi, ecco il primo capitolo.

    Capitolo 1: Nilo
    Viaggiare nel deserto è estremamente complicato, perfino nelle zone tranquille come le sponde del Nilo, il fiume più lungo che esista al mondo; certo, le possibilità di perdersi nel deserto erano ridotte al minimo, ma avrei dovuto fronteggiare l'ossessiva ospitalità dei locali, sempre disposti a offirire ristoro ai viandanti a causa della loro innata generosità. Ad Assuan, porto di commerci per tutto l'Egitto, antico e moderno, dove arrivai a tarda sera solo tredici giorni di cammino dopo la mia partenza, ottenni un passaggio per Asiut, che si trovava molto più a sud, nelle terre della Nubia: a causa della piena, la navigazione sarebbe stata più complicata - di fatto, con la stagione delle pioggie in corso, le cascate avevano fatto trasboradare il Nilo dai suoi argini, come avevo già detto.

    Il lungo viaggio durò tutta la notte, più un altro giorno intero e un'altra notte; il capitano, un uomo forzuto e robusto, era abbastanza risoluto con i suoi sottoposti, ma dimostrò tutta la cortesia possibile nei miei confronti: in Egitto le superstizioni locali dei contadini sono svariate, e credono che gli eremiti siano messaggeri di terre lontane, ministri degli dei; a volte l'ignoranza popolare con le sue insulse tradizioni, e soprattutto, ridicole mancanze di rispetto verso la vita stessa mi facevano vergognare di far parte del genere umano; non che io mi considerassi più umano comunque...
    In quanto eremita, mi considero una parte a se' stante: non un elemento del sistema, ma un fattore che influenza il sistema: viaggiando, noi eremiti offriamo i nostri contributi alle società, ma sempre cercando le risposte alle nostre domande, per arrivare alla verità, Luce suprema che tutto travolge.
    Nel corso di varie notti avevo spesso utilizzato l'anello, che racchiudeva altri poteri: mormorando la parola Luce, in qualsiasi lingua - solitamente io usavo il latino Lux - potevo diffondere un lieve bagliore per illuminare la notte; una virtù non potente come il Dono delle Lingue, ma di certo utile e pratico.
    Avevo letto dell'Anello dei Nibelunghi, ma di certo il mio monile non era il mitico gioiello ricavato dall'oro del Reno che da il potere su ogni cosa, a costo di rinnegare l'amore: no, il mio anello era magico, d'accordo, ma non mi avrebbe di certo reso padrone del mondo, e non mi conferiva talenti straordinari di nessun genere, per quanto fosse assai incredibile, il Dono che mi aveva conferito.
    Avevo deciso di usare quel gingillo solo per scopi pacifici, e il Dono delle Lingue a mia discrezione. Ragion per cui, passavo la maggior parte del tempo in assoluto silenzio.

    Arrivati che fummo ad Asiut, dovemmo fermarci: la tartana peschereccia non avrebbe potuto proseguire in quel punto dove il letto del fiume si alza. Perciò dovetti proseguire a piedi.
    Un contadino si offì gentilmente di darmi ospitalità per la notte, e io cortesemente, accettai: sua moglie offrì una torta di farina e olio, che dividemmo tra noi tre e i due giovani figli, un sedicenne e un undicenne con la testa rasata, salvo una treccia che spuntava dalla nuca, secondo l'usanza. Gustammo la focaccia, il latte della loro mucca e dei fichi secchi; una cena deliziosa e frugale, il tipo di cena che noi eremiti apprezziamo, essendoci votati alla povertà.
    Mi offrii di vegliare sulla loro casa quella notte, e perciò, rimasi fuori dalla porta a guardare le stelle: il cielo era stupendo laggiù, non come a Londra, dove sono cresciuto.

    Londra. Me la ricordo bene: White Chapel, dove operava i suoi malefici il terribile Jack, detto lo Squartatore; papà lavorava in un antiquario che teneva al pian terreno di casa, ma quando gli affari cominciarono ad andare in rovina, dovette mollare tutto; poi mamma si ammalò di febbre, e la situazione ha cominciato a degenerare nel caos: la malinconia porta alla disperazione, e la disperazione porta al panico. Il mio vecchio era fuori di se' e fu allora che avvenne il fattaccio. Mia madre si tolse la vita unendo poche goccie di cianuro a un bicchiere d'acqua, stando a quanto disse la polizia; era lievemente alcolista, e i medici ironicamente lo definirono "L'ultimo bicchierozzo di tutta la sua vita"

    Nel corso della notte, il figlio maggiore venne a darmi il cambio: cercai di protestare, ma lui mi rispose con un sorriso buono; allora non dissi nulla, e andai a dormire in cucina. Fu una nottata particolarmente tranquilla, una delle poche degli ultimi tempi.
    La mattina seguente, il contadino mi offrì un po' del suo latte per il disturbo, e io ne profittai per riempire il termos, che ormai si era svuotato, a furia di piccoli sorsi.
    Al mercato di Asiut, usai i pochi soldi che mi restavano per comprare una borraccia in pelle di cammello e un fazzoletto per proteggermi dalle tempeste di sabbia, sebbene fossero meno frequenti nella stagione umida.
    Per arrivare alle cascate e quindi al lago Vittoria ci misi un'altra settimana di cammino, camminando quasi venti ore al giorno, e costeggiando di tanto in tanto il Nilo azzurro: uno spettacolo indescrivibile. Arrampicarmi sarebbe stata un'impresa dura, ma ero già sopravvissuto alle folte foreste di caducifoglie della Germania; quel muro di pietra non sarebbe stato diverso.
    Mentre salivo potevo sentire comunque le grida stupefatte dei locali: chi urlava in egizio e chi in francese. "Ma si romperà il collo!!"
    A dispetto delle loro parole, nel giro di poche ore, arrivai in cima alle cascate, a più di mille e cento metri di altitudine, mani scorticate e articolazioni intorpidite. Come mi trascinai in cima, una lontana ma prodigiosa acclamazione mi raggiunse: i contadini erano in visibilio, e un lievo sorriso venne a incurvare la mia bocca.
    Mi riposai fino a che fu sera inoltrata: i villici del posto se n'erano andati da un pezzo.
    E così, alla luce del tramonto, mi misi nuovamente in cammino. Contavo di arrivare fino a Johannesburg, e chissà, forse arrivare al polo sud; avevo già superato l'Equatore, e arrivare fin la, mi sembrava ormai una sciocchezza.

    Quella che accadde poi, è una storia da non potersi credere, e non sono in grado di dire se potrò mai tornarvi un giorno, perché nessuno sa dirmi se quel posto sia ancora là, o se esso sia realmente esistito.
    Con una speranza nel cuore, ripresi a cantare:
    Udite le blande canzoni vagar...
    Il remo ci scande gli accordi sul mar...

    Continua...

    Lasciate qui i vostri commenti. (scusate la geografia, ma sono dovuto impazzire per raccogliere i dati necessari al percorso). Spero di sentirvi presto.


    Edited by Gaoh - 24/12/2015, 02:15
     
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  4. Pridelands98
     
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    CITAZIONE (Gaoh @ 21/2/2013, 14:21) 
    Per chi vuole una data onesta, il giorno in cui l'eremita lascia Alessandria d'Egitto, è il 18 marzo 1994.

    Quando ho letto questo frase ho pensato "e se la ambienterò nella realtà questa storia e farà arrivare il protagonista in un villaggio swahili dove ci soni i produttori del Re Leone ad imparare Hakuna Matata...?!" Pensò che magari potrebbe essere proprio così
    Se ho indovinato devi premiarmi in qualchemodo... No scherzo ovviamente! :D

    Comunque bellissima storia. Gaoh tu devi fare lo scrittore, in biblioteca devono vendere libri di cui l'autore sei tu! Si, si! Tornando alla storia, bellissima, aspetto il continuo... :)
     
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    Gaoh tu devi fare lo scrittore, in biblioteca devono vendere libri di cui l'autore sei tu!

    Troppo gentile, Pridelands... un giorno, chissà...
    Avevo bisogno di un commento: dovevo essere sicuro che vi piacesse.

    Tornando a noi...
    Da ora in avanti, l'Eremita non incontrerà umani per un pezzo. Mi spiace deluderti, ma non incontrerà sceneggiatori (siamo già nel '94)... e resterà in Africa per un bel po'.

    Capitolo 2: Una creatura speciale.
    Guadai il lago Vittoria - il più grande dell'Africa intera - nel corso di una notte, puntando seriamente verso sud est, traverso una piccola porzione dell'Uganda.
    Da allora costeggiai il lago verso sud, rifornendo la borraccia di tanto in tanto. Non avevo toccato il latte del contadino, conservandolo per casi di emergenza: il mio termos l'avrebbe mantenuto in fresca per un paio di settimane o poco più... non ne ero certo, ma di sicuro non mi sarebbe durato per più di un mese.
    Devo aver camminato per un paio di giorni seguendo i vari affluenti del lago verso sud raggiunsi l'area desertica collinare; a quel ritmo, mi sarei ritrovato ben presto nel Serengeti, e così fu.
    Dicono che nella piana sconfinata si trovi l'avventura, e per questo non è raro trovare noi eremiti in quelle terre; almeno una volta nella vita, tutti gli eremiti passano per quella che i più considerano la culla dell'umanità.
    Ero ormai a sud dell'Equatore, e quindi, in pieno autunno, poiché quando da una parte del mondo vi è una stagione, dall'altra vi è l'esatto opposto: ennesima prova dell'Equilibrio naturale delle cose.

    Arrivai in vista del Serengeti il quinto giorno di cammino dopo aver lasciato il lago: davanti a me, nient'altro che una landa desolata e arsa dal sole, con la pietra ricca di crepe, come se ogni goccia d'acqua fosse stata strappata via; mi calcai il cappuccio sugli occhi, e mi misi in cammino.
    La mia mantella era larga per lasciar passare l'aria, e bianca per riflettere la luce solare, in modo da respingere il calore eccessivo, ma la pietra era rovente come in un altoforno; pochi sarebbero sopravvissuti laggiù, e perciò mi augurai di trovare un fiume o qualcosa per rifornire la borraccia, vuotata giusto la sera prima.

    Lo spettacolo delle terre selvagge è incredibile in ogni parte del mondo: le foreste della Germania trasudavano delle antiche leggende norrene, e le spiaggie isolate del Mediterraneo erano ricche di vita e varietà, ma le terre d'Africa erano qualcosa di speciale. Dovevo essere tra la Tanzania e il Kenya, poiché a Nord riuscivo a vedere l'imponente tronco di cono a base larga, l'immensa ciambella spolverata di neve: il Kilimanjaro, o Kili, come lo chiamano affettuosamente i locali.
    Era un luogo perfetto per trovare la pace: una terra dove gli umani non si sono imposti, eppure, da quello stesso luogo si erano formati i primi ominidi, che nel corso di svariati millenni hanno portato alla forma finale degli umani, o Sapiens, come li chiamo io.
    Una mia particolare caratteristica, lo confesso, è di usare i nomi latini degli esseri viventi in forma di rispetto; tecnicamente la fauna si divideva in erbivori come le Equus quagga (Zebre) e gli Connochaetes gnou (Gnu); ma cosa più importante, ero nella Terra dei grandi predatori noti come Panthera leo, i magnifici leoni, che occupano solo il secondo posto nella classifica dei Felis più grandi del mondo.
    In fondo alle Aride Terre, notai che si stendevano a perdita d'occhio dei grossi termitai, dai quali uscivano i grossi coleotteri a sciami; mi tenni saggiamente alla larga: non erano pericolosi come gli scarabei del deserto, o delle nebbie (Onymacris unguicularis) ma di certo, non le migliori compagnie.

    A forza di camminare, arrivai a un fiume secco, che un tempo doveva essere ricco, e la cosa mi lasciò perplesso: eravamo nella piena stagione delle piogge, molto umida, che avrebbe dovuto colmare il corso fino all'orlo. La cosa non quadrava: forse un caso di siccità dovuto al surriscaldamento globale; nel mio furore maledissi ancora una volta gli Homo Sapiens sapiens per le loro scellerate condotte. Ma non tutti: non sarei stato ingiusto come loro.
    Vi sono umani che non farebbero mai nulla di male al mondo, e altri che non esitano a sfruttarne abusivamente le risorse più preziose per i loro desideri.
    Strinsi rabbiosamente il manico della mia scure, e giurai che non sarei mai più tornato a mescolarmi con quelle creature demoniache. Mai e poi mai!

    I miei pensieri furono interrotti da feroci e acute risate: non poteva trattarsi di altro che iene ridens, poiché solo queste feroci creature simili a lupi, tuttavia non membri dei canidi, sanno ridere così. In un lampo superai il fiume, e cominciai a correre: la savana intorno a me dava segno di non aver visto cadere la pioggia per molto tempo; sul serio, qualcosa non quadrava in quella regione.
    Superai l'arida erba alta, e scalai una piccola altura: le risate erano sempre più vicine.
    Ciò che vidi era assolutamente scioccante: dovevano essere almeno in sei, tra di esse una dall'aria particolarmente feroce, e una con una criniera più folta delle altre, ma tutte avevano gli stessi occhi cattivi, e ridevano fragorosamente, mentre facevano rotolare tra le zampe qualcosa di infinitamente piccolo.
    Sentivo chiaramente le loro risate, e - senza dubbio grazie al potere dell'anello - riuscivo a comprenderne il linguaggio non umano: dunque il mio monile mi aveva dato un Dono Assoluto delle Lingue.

    "Ahahahaah!!" sghignazzava una. "Guardalo come va!"
    "Vogliamo divertirci ancora un po'?" chiese la femmina dalla criniera più folta. "O vogliamo finirla qui?" Da quelle parole, compresi che stavano torturando qualcuno: qualche preda? Improbabile: necrofagi come loro sono soliti rubare le prede piuttosto che cacciare.
    "Il gioco è bello quando dura poco!" rise un terzo - un maschio - assestando una grossa botta alla loro vittima. "Ci è stato dato un ordine! Ora lo porteremo a termine!! Ahahaahh!!"
    Un gemito, incredibilmente simile a un miagolio giunse alle mie orecchie. Non riuscivo a crederci: era un cucciolo di Panthera Leo, quello tra le loro infide zampe, e lo stavano massacrando di botte.
    Una scarica elettrica mi attraversò i nervi dalle piante dei piedi, lungo la spina dorsale ed esplose come una bomba nel mio cervello: sfilai la scure dalla cintola, e mi precipitai nella ressa, ululando selvaggiamente.
    "AHH! FERMI, SCELLERATI!!"
    Al mio grido, tutte si voltarono verso di me.
    "Un intruso!"
    "Cosa vuole!?"
    Mulinando il braccio cominciai a disperderle: "Indietro, serpi! Salamandre! Indietro dico!!" Una delle iene tentò la rappresaglia, solo per beccarsi il piatto della mia lama sul muso. "Chi sei tu!?" tuonò la femmina con voce rabbiosa. "Che cosa vuoi da noi!?"
    Era strano, ma risposi ugualmente. "Voglio che ve ne andiate sull'istante, e che lasciate in pace questo innocente!"
    "Abbiamo avuto un ordine!" ringhio la iena che avevo colpito.
    "Da chi?" domandai. "Dal Re!" sibilò la femmina. "Egli non vuole che questo piccolo diventi una minaccia!" Assumendo un aria feroce, concluse. "Non volevamo averci nulla a che fare, ma non ci ha dato alternative: gli ordini del Re vanno rispettati!"
    "E chi è mai questo Re!?" Ero fuori di me dallo sbalordimento. "Quale sovrano ha la sua casa qui? E come può chiedere una cosa del genere!?"
    "Questo non ti riguarda, straniero!" latrò lei. "La tua intrusione non era prevista! Aspetta solo che il Re sappia che sei qui!"
    E con un richiamo, iniziò a correre verso ovest: le compagne la seguirono.
    "Shenzi!" urlò una di loro. "Che ne facciamo del moccioso?"
    "E' come se fosse già morto! Il Re sarà soddisfatto!"

    Rimasi a guardarle allontanarsi: quello che era appena successo andava al di là di ogni mia aspettativa! Avevo dialogato e combattuto con delle iene selvatiche, che portavano nomi propri come gli umani... era semplicemente incomprensibile, ma guardando il mio anello, compresi chiaramente che esso mi aveva dato un potere unico al mondo: pochi eremiti o umani di qualunque sorta, possono dire di aver vissuto la mia esperienza di quel giorno.
    I miei pensieri tornarono alla piccola vittima: mi precipitai su di lui. Era effettivamente un piccolo maschio di Panthera Leo, con una pelliccia color beige, e piccole macchie scure sul manto. Era pieno di lividi e sanguinava: posai le mie dita sul collo della bestiola, e sentii che respirava ancora; sotto la mia mano lo sentii fremere di dolore e paura. Dalla sua bocca uscì un gemito.
    "M... mamma... "
    Era assolutamente una situazione incredibile.
    Quel leoncino non poteva avere più di due mesi.
    Continua...

    Attendo i vostri responsi, e rispondo già in anticipo a chiunque lo chiederà: ci sarà un po' di latino in questa FF.


    Edited by Gaoh - 8/7/2015, 09:53
     
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  6. Pridelands98
     
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    Ah bellissimo! Concordo con quello che pensa il protagonista: la razza umana fa schifo mi vergogno di farne parte, solo poche persone (come noi che frequentiamo questo forum sul Re Leone) hanno un buon cuore
    P.S. Vieni a leggere il mio proverbio che scritto nella mia firma... XD
    Arrivando finalmente alla storia... Bellissimo! Quindi sarà un "what if... ?" di cosa sarebbe successo se Simba invece che essere salvato da Timon e Pumbaa, sarebbe stato salvato da un umano?! Forte! :lol: :D
     
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  7. Somoya
     
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    concordo anch'io col protagonista, il 90 e passa per cento delle persone se ne frega del nostro pianeta, sono davvero pochi gli individui lungimiranti come il protagonista,
    sei davvero bravo Gaoh stai facendo ottime descrizioni, sia del mondo circostante, sia dell' interiorità del protagonista.
    ora si entrà nel "vivo" del Re Leone a quanto pare, sono molto ansioso di vedere come continua

    P.S. quell'anello è portentoso
     
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    Grazie per i commenti.
    CITAZIONE
    Arrivando finalmente alla storia... Bellissimo! Quindi sarà un "what if... ?" di cosa sarebbe successo se Simba invece che essere salvato da Timon e Pumbaa, sarebbe stato salvato da un umano?! Forte!

    Ehm... Pridelands, devo deluderti, e sai quanto mi dispiace, ma il leoncino in questione non è Simba, ma un'altro, e non è una FF What if... ?
    Il cucciolo in questione è Meethu, il primo leone non canonico di cui ho sentito parlare.


    "Il denaro è la debolezza dell'uomo"
    Hai centrato il punto, a quanto pare...
     
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    Molto bene, ci sono!

    Capitolo 3: Responsabilità
    Quel cucciolo aveva bisogno di cure immediate, non c'era tempo da perdere: mi tolsi la mantella e la usai per infagottarlo per bene; era talmente piccolo da starci comodo nelle mie mani.
    Mi guardai attorno, cercando naturalmente di non farmi prendere dal panico: dovevo trovare il posto giusto per nasconderlo, finché non si fossero calmate le acque; seguendo con lo sguardo la direzione presa dalle iene, notai l'immensa rocca di pietra che si stagliava solitaria nel mezzo della savana: una costruzione che non sembrava ne' naturale, ne' tantomeno artificiale; un palazzo di fuori da ogni comprensione.
    Capii quasi all'istante che il Re menzionato da quei vili, senza ombra di dubbio viveva in quella rupe. Non potevo portare il piccolo laggiù: se il terribile signore lo desiderava morto, condurlo in quelle sale sarebbe stato come consegnarlo al macello... no, dovevo trovare un altro posto.
    Guardai a est, a sud, a nord, comprendo un raggio di almeno mezzo chilometro, prima di adocchiare una piccola caverna: un posto appartato, nascosto dall'erba e da un grosso cespuglio sinuoso che si era abbarbicato su di essa. Non avrei potuto trovare nascondiglio migliore per curare il piccolo; non dovevo fare altro che constatare se il rifugio fosse già occupato.
    Mi avvicinai per ascoltare, ma non sentii nulla; guardai dentro: a giudicare da ciò che vidi non c'era anima viva. Assolutamente perfetto.

    "All'opera!" mi dissi, adagiando il fagotto sulla terra soffice.
    Solo allora potei esaminare meglio il piccolo: era stato azzannato con veemenza alla schiena, un colpo terribile che avrebbe richiesto tutta la mia attenzione; svariati lividi scuri segnavano il corpicino fragile e le minuscole zampe, e gli occhietti pesti erano neri: non piangeva, ma dava segno di aver pianto molto: cosa strana, poiché i leoni di norma non piangono. Il mio Dono delle Lingue dunque, non si limitava a farmi comprendere il linguaggio animale oltre alle lingue degli uomini, ma riuscivo anche a discernere espressioni simili a quelle umane su quei musi, seppur con qualche difficoltà.
    Mi dissi che ci avrei fatto l'abitudine con il tempo; dovevo innanzitutto trarre quel piccolo di Panthera Leo al sicuro dalla morte.

    Alcuni di voi gentili posteri che tra molti anni leggeranno le mie memorie potranno chiedersi, perché... Perché affannarsi tanto per un predatore di uomini? Semplice: perché io ero, sono tuttora, e a meno che la verità non mi colpisca prima della morte, sarò per sempre un'eremita; quelli come me e come altri nel mondo, si prodigano per proteggere la Terra, misero mondo destinato a scomparire; siamo i suoi custodi, e checché ne dicano i ricchi e i potenti ottusi che lo opprimono, è una nostra scelta: scelta di cui saremo sempre fieri, poiché essa ci ha definiti, e forse è questa la verità più grande di tutte.

    Tornando al leoncino: strappai un lembo del mantello e fasciai il suo corpo, assicurandomi di non stringere troppo forte, e usando l'alcol denaturato nella mia cassetta del pronto soccorso, con una pinza e del cotone, tamponai le ferite. Sotto la mia mano lo sentivo tremare di dolore e paura; i suoi flebili miagolii sembravano il piagnucolio di un bambino di tre anni alle mie orecchie.
    Forse un giorno mi sarei pentito di questo salvataggio, ma non potevo sottrarmi alle cure: era troppo piccolo per morire. Nessuno dovrebbe morire così giovane, e mi rincresce dire che cose di questo genere avvengono troppo spesso nel mondo; perciò feci quello che potevo.
    Il sole, estremamente debole, nonostante la siccità, cominciò a discendere verso ovest.
    La grotta in cui mi trovavo era abbastanza grande, sufficiente per poterci stare seduto senza sbattere la testa, ma non abbastanza per starci in piedi: era un luogo sicuro e appartato; perlomeno, lì dentro il piccolo sarebbe stato al sicuro.
    Come ebbi terminata l'operazione, mi accasciai a sedere: quel piccolo non solo era rimasto ferito, ma di sicuro doveva avere anche fame. Mi ricordai del latte di mucca nel mio termos, ricevuto da quel contadino ad Asiut: latte intero; forse il leoncino era più fortunato di quanto mi aspettassi.
    Preparai una siringa, cavandole l'ago e la tenni accanto a me, nel caso si fosse svegliato: avevo due siringhe da duecentocinquanta millilitri ciascuna, e il mio termos, rimasto inalterato, aveva una capacità di quasi due litri: avrei potuto riempire ciascuna siringa almeno cinque volte ciascuna: considerando che i cuccioli di leone prendono il latte almeno quattro volte al giorno, se non di più, avevo a disposizione nutrimenti essenziali per sfamarlo appena un paio di giorni o poco più, e poi... come?
    La soluzione più naturale sarebbe stata sfamarlo con della carne: sminuzzandola, forse avrei potuto creare degli omogeneizzati istantanei; era un metodo poco ortodosso nella cura di un animale del genere, ma i miei voti di eremita non mi lasciavano scelta.

    Noi eremiti abbiamo questa e molte altre responsabilità:
    Veniamo accolti in una città, e imprigionati in un'altra; in tal caso, prendiamo la cosa con filosofia, e passiamo la maggior parte del giorno in silenzio rispettoso.
    Siamo felici con il sereno e pazienti con il brutto tempo.
    Ci facciamo beffe delle idee altrui e sfidiamo la sorte.
    Ridiamo della nostra miseria e la facciamo sempre in barba a tutti quanti.
    E nonostante tutto, nonostante professiamo di essere liberi, nessuno è più schiavo di noi: ci siamo messi ciascuno sotto la propria responsabilità, destinati a scomparire nelle tenebre dell'Oblio che tutto cancella.Quando la sorte benevola ci concede il dono di un'amico, alcuni se lo tengono stretto, anche se questo vorrebbe dire condizionarne la vita.
    Da parte mia, non mi sarei mai aspettato di socializzare con un predatore di quella categoria; ma l'inaspettato resta il sale della vita, non è forse così?

    La notte passata nella grotta fu tranquilla, anche se nella prima sera avevo sentito i ruggiti lamentosi di alcune leonesse; rassomigliavano spaventosamente a pianti disperati. Senza dubbio la madre del piccolo lo credeva morto; se avesse saputo che era in salvo sarebbe morta di felicità, subito dopo avermi sbranato, ovviamente; una leonessa madre difficilmente perdona chi si avvicina ai suoi cuccioli, ma il mio caso poteva essere diverso: grazie al Dono delle Lingue, forse avrei potuto stabilire un legame. Mi ripromisi di localizzarla.

    Da alcuni anni a quella parte, avevo ridotto il mio periodo di sonno: non dormivo che cinque buone ore per notte, vero come è vero che mi svegliai come mio solito, alle prime luci dell'alba. Per scaramanzia tirai fuori lo specchio dallo zaino e mi guardai.
    Conoscevo il mio volto, ma mi era comunque impossibile riconoscermi, dopo tanti anni: la mia pelle era sempre stata bianca, ma un pallore sano e alabastrino, il colore della salute; ora il mio colore era un grigio marmoreo, quasi cadaverico. I miei capelli, un tempo color dell'ebano erano diventati bianchi come la neve, a forza di stare sotto il sole; il mio volto aveva smesso di mutare a sedici anni, e fattore insolito, non mi era mai spuntata la barba: forse un raro fenomeno del mio codice genetico, o chissà cos'altro...
    Tuttavia, la parte più spaventosa della mia persona erano i miei occhi: infossati nel cranio, occhi rossi, come la luce dell'alba; attorno ad essi, sembrava che sanguinassero. Uno sguardo spaventoso e demoniaco.
    Tale era il mio aspetto dopo undici anni di peregrinazioni, e chissà come sarei diventato tra cinquanta o sessant'anni. L'idea di farmi ancora più mostruoso di così mi terrorizzava.
    Dopo svariate ore, alle diciotto circa del giorno seguente, miei pensieri furono interrotti improvvisamente da un flebile mugolio.


    Il piccolo si era svegliato.
    Continua...
    Prego, commentate, e ditemi come sto andando, grazie.
    Pridelands, Somoya, spero che non sarete gli unici. Conto su di voi! (sorride)


    Edited by Gaoh - 24/12/2015, 02:19
     
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  10. Pridelands98
     
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    Bellissima molto interessante. Tranquillo Gaoh, presto arriveranno altri commentatori oltre me e Somoya, ne sono sicuro.
    Ho letto chi è il cucciolo ma non dico il suo nome per non spoilerare la storia agli altri lettori.
    Chissà cosa farà Scar quando vedrà che le iene gli hanno mentito e che un essere umano sta curando... il cucciolo ;)
     
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    Gaoh, sei uno scrittore nato.
    Questa tua nuova storia mi sta piacendo moltissimo.
    La grammatica è impeccabile, e le descrizioni dei paesaggi e dei personaggi (e delle loro emozioni) sono perfette.
    Il tuo personaggio, l' Eremita, mi piace tantissimo.

    Continua così :)
     
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    Dicono pancia piena ragiona meglio, ma consiglio di non esagerare.
    Chi ama i cuccioli apprezzerà questo capitolo.

    Capitolo 4: Lion Day Care
    Per un secondo, mi guardò con occhi azzurri, grandi, luminosi e spaventati.
    Ricambiai il suo sguardo, e sorridendo, dissi: "Salve!"
    Subito lui si ritirò frettolosamente: "C-chi sei?" domandò spaventato, guardandosi attorno. "D-dove sono!? Dov'è la mia mamma??" Con espressione terrorizzata si mise a correre lungo la parete, urlando dalla gran paura: era comprensibile.
    "Mamma! Mamma dove sei? Le iene!! Aiuto! Mamma! Sorellina, aiuto!!!"
    Subito fui su di lui, e con presa solida ma gentile lo bloccai: il povero piccolo era traumatizzato.
    "Shh shh..." sussurrai. "Non devi aver paura di me!"
    In un secondo, il piccolo si tranquillizzò, e guardandomi con i suoi occhioni disse, sempre timoroso: "Chi sei tu?"
    "Un eremita!" risposi semplicemente. "Un vagabondo che vaga sulla terra... "
    "Vagabondo?" Se possibile, gli occhioni del leoncino si sgranarono ancora di più.
    "Conosci questo termine?" domandai cortesemente. "Certo!" disse lui, avvicinandosi per guardarmi bene. "Mamma mi ha detto che i vagabondi sono leoni che viaggiano da un posto all'altro! Ma tu non sei un leone!"
    Io scossi le spalle. "Beh, no... direi proprio di no... è complicato da spiegare!"
    "Chi sei tu?" domandò di nuovo il mio piccolo interlocutore.
    "Te l'ho detto!" risposi io, cortesemente. "Ma tu non sei un leone!" ripeté lui, ritirandosi spaventato: ero un'essere nuovo per lui, non aveva mai visto un mio pari. La sua reazione era assolutamente comprensibile.
    "Vero, non sono un leone!" dissi. "Ma almeno non desidero la tua morte, come quelle iene!" Il piccolo tremò di paura. "Mamma... ho paura!" piagnucolò. "Tanta paura!"
    Lentamente allungai il braccio e posai il palmo sinistro sulla piccola creatura. "Non devi avere paura, piccolino... ci sono qui io con te!"
    "Tu non sei la mia mamma!!" esclamò lui, scostandosi; il mio polso guizzò e con due dita lo afferrai per la collottola.
    Nonostante i suoi disperati miagolii di protesta, lo sollevai fino all'altezza dei miei occhi, costringendolo a guardarmi. "La tua paura è ovvia come le macchie sul tuo pelo, piccolo! Ma almeno dovresti mostrare un briciolo di gratitudine: quelle iene stavano per ridurti in polvere. Se non fossi arrivato io, saresti già morto: un po' troppo presto per i miei gusti!"
    La mia incombenza fu abbastanza grezza e rude da zittirlo.
    Con un sospiro lo posai sulle mie gambe incrociate, poiché mi ero seduto; il piccolo cercò di sottrarsi, e con una gentile presa della mano lo forzai a restare fermo.
    "Io voglio la mia mamma!!" piagnucolò lui.
    "La vedrai!" gli dissi, e subito alzò la testa; era così carino e spaventato...
    "Davvero?" mi chiese.
    "Assolutamente!" esclamai. "Ma non è questo il solo motivo per cui piangi, vero?"
    Avevo colto nel segno. "Ho tanta fame..."
    "Lo immaginavo!" subito presi il termos e le siringhe senza ago.
    Aperto il contenitore di latta, subito riempii la prima siringa, e l'accostai alla bocca del piccolo: quando comprese cos'era si mise a succhiare, artigliando la liscia superficie di vetro con le piccole unghie; erano almeno cinquanta millilitri, ma sapevo che non sarebbero bastati. Arrivato in fondo all'ultima goccia, si leccò i baffetti e miagolò: "Ancora!" subito preparai la seconda siringa, e ancora una volta feci bere il piccolo. Vuotò la seconda siringa con minor fervore, per godere meglio del suo cibo; era così fragile che temevo di stritolarlo.
    "Avevi proprio fame, eh?" sorrisi; terminata la seconda siringa, il leoncino mugolò soddisfatto. "Sto meglio!"
    Con delicatezza lo voltai per esporre la schiena, e lentamente, cominciai un leggero massaggio, fino a quando non lo sentii emettere un lieve ruttino, seguito da un profondo sbadiglio: "Ho tanto sonno!"
    "Sfido, io... sei sopravvissuto a una giornata estremamente pericolosa; hai bisogno di dormire... " Lo adagiai sulla roccia piatta sul fondo della caverna.
    "A proposito," gli dissi, ricordandomi del singolare fattore: "Come ti chiami?"
    Il piccolo, già mezzo assonnato aprì un'occhietto per guardarmi. Credevo che mi avrebbe risposto, ma si limitò a un debole sorriso, per poi sprofondare nel mondo onirico.

    La notte fu serena per me; compiere un'opera di misericordia fa stare bene: tuttavia quella notte non chiusi occhio. Rimasi sul ciglio della grotta a vegliare fino a notte fonda. Ciononostante, il torpore del sonno, alla fine si impadronì di me. L'aria era secca e fredda: la siccità che aveva colpito quelle Terre era qualcosa di surreale.

    La mattina arrivò presto: troppo presto. Stavo ancora dormendo, quando sentii qualcosa di umido lambirmi la guancia; aprii gli occhi: il leoncino si era già svegliato, ed era vispo come un grillo, nonostante la sua convalescenza. "Ciao!"
    "Ehi, dico!" esclamai alzandomi. "Se non erro, fino a ieri sera avevi paura di me!" Il piccolo rise: "Mi hai salvato la vita! Adesso siamo amici, no?"
    Amici... quella terribile parola... avevo perso troppi amici in breve tempo, la notte dell'incursione terrorista su Londra... l'idea di avere un nuovo amico mi sconvolgeva: ma era diverso; quel leoncino non aveva niente degli umani... provava una felicità e un'ignorante allegria che nulla ha degli Homo Sapiens sapiens... no, in quel piccolo esserino vivace vi era qualcosa di più.
    Lo fissai per un'istante prima di rispondere. "Evidentemente sì..." scivolai fuori dalla caverna, stipata di tutti i miei effetti, e guardai a est: erano le nove e mezza circa del mattino, e c'era un'aria malsana nei dintorni.
    Improvvisamente, sentii una fitta allo stomaco: dovevo procurarmi qualcosa da mangiare, o sarei morto molto presto; era da Asiut che non mettevo niente in bocca, e poiché noi eremiti campiamo per la maggior parte di caccia, questa un tempo frivola attività dei nobili è diventata il nostro Credo, come la ricerca della verità era la nostra raison d'etre.
    Presi l'arco e le frecce e disposi la mia attrezzatura sulla schiena. Prima, però, fornii al piccolo una siringa di latte da bere, raccomandandogli di bere poco a poco.
    "Ora devo allontanarmi per la caccia, tornerò tra qualche ora; mi capisci, vero?"
    Lui mi sorrise sereno. "Anche la mamma e la Regina Sarabi vanno a caccia, come tutte le leonesse! Tu sai cacciare?"
    Facendo spalluccie risposi: "Abbastanza... diciamo che me la cavo!" Il piccolo rise.
    "Mi raccomando," aggiunsi, facendomi serio. "Non uscire da questa caverna per nessun motivo, mi raccomando!"
    "Certo!" esclamò lui.
    In fede, non ero sicuro di quello che facevo; avessi avuto a mia disposizione una birra, un desco imbandito e una bottiglia di acquavite, ecco come ne avrei disposto: avrei affidato la birra a un tedesco, sapendo che l'avrebbe adoperata per inzupparsi l'ugola prima ancora che io avessi finito di dargli le direttive su come custodirla; avrei affidato il desco a uno straccione olandese, ben conscio del fatto che mi avrebbe benedetto mille e più volte prima di fare piazza pulita non appena mi fossi voltato; infine avrei dato la bottiglia di acquavite a un turco, sicurissimo che ne avrebbe usata metà per sciacquarsi le gengive, e l'altra metà per lavarsi i capelli.
    Avrei fatto tutto questo piuttosto che affidare un bambino a se' stesso; ma quel leoncino era diverso: era intelligente, e dopo quello che aveva passato, di certo non si sarebbe messo nei guai.

    Con quella certezza a rassicurarmi, mi misi in moto per la caccia: speravo solo che la siccità non avesse spinto le mandrie a spostarsi troppo... perché in caso contrario, sarei stato veramente nei guai.
    Continua...

    Leggete, gradite e commentate.
    Spero che la storia stia prendendo forma nel modo giusto anche secondo voi.


    Edited by Gaoh - 24/12/2015, 02:25
     
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  13. Pridelands98
     
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    Bellissimo! Amorino Meethu, è così puccioso :cry: Io non cìè la posso fare, ho un debole per i cuccioli, sono così piccoli, teneri e carini
    Chissà cosa farà ora il protagonista, vedremo se riuscirà a cacciare con successo senza essere visto da Scar e/o le iene!
     
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  14. Somoya
     
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    Bello! mi piace, ora immagino che ci sarà un confronto con scar o le iene, o con le leonesse, visto che l'eremita si è ripromesso di cercare la madre di meethu, sono curioso di vedere la piega che prenderà la situazione!
     
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    Il tempo è buono; nuvole belle grosse contro il cielo azzurro.
    Tempo ideale per postare... io presumo.
    In questo capitolo ci troverete azione da Wawindaji (Cacciatori)
    Vediamo chi presumerà giusto, ora!

    Capitolo 5: Straniero
    Il mio arco, come tutte le mie armi aveva una storia: avevo comprato quest'arma singolare dall'aspetto medievale e primitivo a tredici anni; prima di allora battevo a ogni porta che mi capitasse a tiro.
    In ogni caso, avvenne in un bel giorno di sole al porto di Marsiglia, sulla Costa Azzurra - eh sì, sono stato anche in Francia - quando all'emporio di articoli sportivi, andai a presentarmi: già da tempo speravo di procurarmi un'arma da fuoco, ma le pistole di ultima generazione erano troppo care per me. Oltretutto, con un simile aggeggio, mi sarei dovuto preoccupare costantemente di comprare munizioni di riserva: una prospettiva che non mi allettava affatto.
    Cercai di spiegarlo al commesso - uno spilungone stempiato e calvo con gli occhiali da sole - che mi si presentò con quell'arma singolare, e me la cedette a gratis, assieme a una faretra contenente circa due dozzine di freccie dal piumaggio di corvo; affermò in confidenza di volersene sbarazzare da un pezzo, perché stonava con i suoi articoli migliori, e i suoi affari ne risentivano.
    Fui fortunato: senza quell'arsenale avrei dovuto usare una fionda. Piuttosto spartano come metodo...

    Da allora, ogni preda che avvistavo, dovevo metterla in scacco sotto il tiro delle mie saette; agli inizi non era facile, perché io non ero di certo un bravo arcere: imparai con il tempo a compiere i vari calcoli mentali per contenere il caricamento in un lasso di tempo molto breve, per tirare in presenza di vento, e con un pizzico di fiducia e sana volontà, nel giro di un'anno divenni un tiratore provetto.
    Da allora i miei pasti si fecero più sostanziosi, e naturalmente non dimenticavo mai di porgere i miei rispetti alla bestia abbattuta dal mio colpo: io sono un'eremita d'onore.
    Quel giorno sapevo di non avere molte chances con la siccità innaturale del posto: trovai delle impronte nei pressi del fiume arido, ma erano vecchie di giorni, e al quel punto chiunque le avesse lasciate doveva essersi allontanato di miglia e miglia.
    La situazione era difficile, se non addirittura disperata: un cacciatore affamato alle prime armi si sarebbe lasciato prendere dal panico in breve tempo, ma non io. Dovevo mantenere la calma...
    Qualcosa di inaspettato interruppe il flusso dei miei pensieri: sentivo un canto lontano, come di guerrieri, ma le voci appartenevano a delle femmine, senza dubbio.
    Doveva trattarsi di un branco di Panthera Leo, delle leonesse.
    Non avrei potuto trovarmi in situazione peggiore: quelle terribili predatrici stavano apprestandosi alla caccia; io le avevo precedute di appena un quarto d'ora.
    Conscio di quanto siano avide del loro territorio quelle feroci signore, mi acquattai contro vento nell'erba alta per assicurarmi che non mi fiutassero: respirai lentamente e silenziosamente, come se mi trovassi già di fronte al bersaglio della mia freccia. Attesi che si allontanassero, e poi scivolai verso sud, lontano dalla rocca di pietra: ero certo che fossero agli ordini del Re, e forse anche la madre del mio piccolo amico era tra di loro? Chi poteva dirlo...

    Continuando a strisciare verso sud, camminavo appoggiando solo le punte dei piedi, con le ginocchia curve, la schiena ingobbita, e i polpastrelli della mano libera sul suolo.
    La mia mantella era lacera e sporca, quindi potevo nascondermi abbastanza bene: non come i leoni, il cui manto si mimetizza, ma quasi.
    Dopo circa un'ora e mezza di ricerca infruttuosa, notai qualcosa in distanza: era una Eudorcas Thomsonii, una gazzella solitaria, probabilmente una delle poche rimaste: la sua mandria era lontana, forse si era perduta; in ogni caso, era un bersaglio necessario alla mia sopravvivenza.
    Calma; dovevo restare calmo. Le mie speranze non erano vane, ma se mi fossi lasciato prendere dall'emozione, avrei dovuto maledirmi, perché l'avrei fatta scappare di sicuro.
    Mi acquattai ancora di più, muovendomi con maggiore lentezza: non potevo permettermi di fare il benché minimo rumore, e per questo mi ero già preparato; sulle suole degli stivali avevo cucito tempo addietro della peluria, in modo da simulare i cuscinetti che stanno sotto gli zoccoli delle Rangifer Tarandus (renne): è grazie a questi se esse corrono sulla neve alta senza sprofondare, e a motivo di questo i lapponi dicono che nelle bufere di neve, esse riescano a librarsi nel cielo.
    Tornando alla mia incursione, ribadisco: non potevo lasciarmela scappare, ma non potevo avvicinarmi molto, o mi avrebbe visto.
    Mi nascosi dietro un tronco, abbastanza grande da nascondermi.
    Un filo d'erba frusciò al mio passaggio: mi fermai di scatto, mordendomi le labbra.

    La gazzella scattò: la testa alta a scrutare i dintorni.
    "Maledizione!" pensai, ma mi calmai, quando essa tornò a frugare l'erba arida, in cerca di qualche boccone decente.
    Dovevo assolutamente prenderla o non me la sarei cavata. Era una femmina piuttosto giovane, e a quel che sembrava non aveva ancora figliato, ma non era incinta; un bersaglio magnifico, anche se mostrava alcuni sintomi degli stenti: era magrolina certo, ma anche esemplari del genere hanno un peso prossimo ai cento chili.
    Sbirciai da sopra il tronco per fare i calcoli: era a circa trenta metri da me, verso sud, tirava un lieve vento da sudovest, ed essa teneva la testa bassa.
    Calcolando compresi: dovevo tirare puntando appena un po' più in alto della spalla e leggermente spostando verso destra per neutralizzare la resistenza del vento; salvo imprevisti, l'avrei colpita proprio nel gargarozzo, e poi mi sarei avventato per finirla con la scure.
    Presi un bel respiro, e lentamente, incordai la freccia, facendo attenzione a ogni mio movimento. La gazzella era immobile.

    Con uno scatto mi alzai e in un lasso di tempo pari a un battito di cuore, puntai: la bestia che ora mi dava le spalle alzò la testa; non potevo esitare: scoccai.
    Fu un lampo, la mia saetta impennata di corvo si conficcò nel bel mezzo delle spalle della gazzella: con un gemito essa si mise a correre.
    "Fulmini e saette!" berciai, e mi misi all'inseguimento.

    La velocità di una gazzella è considerevole, ma per noi eremiti, uomini e donne rotti a ogni genere di esercizio fisico fin dalla più tenera età, corse del genere sono una sciocchezza. Continuai a scoccare frecce mentre correvo, puntando al di sopra delle corna per assicurarmi di colpirla, tenendo presente la distanza coperta, la resistenza del vento e la velocità. In tutto, scagliai sette frecce: quattro colpirono l'aria e il duro suolo, una colpì il quarto posteriore sinistro all'altezza della coscia, facendola arrancare, e l'ultima - il colpo finale - la centrò alla base del collo.
    In preda all'agitazione gettai a terra l'arco e sguainai la scure: subito fui sulla gazzella caduta che agonizzava, e con un gemito strozzato calai la mia terribile lama sul collo della bestia. Essa emise un ultimo spasimo, e non si mosse più.

    Con fiato grosso per il duro scatto di oltre centocinquanta metri, caddi su quella carcassa che buttava sangue a fiumi, e mi inzuppai la maglietta.
    Come riuscii a respirare normalmente, portai l'indice e il medio destri alla fronte, e mormorai il mio perdono: "Mi dispiace immensamente... che il tuo spirito riposi in pace!"
    Rinfoderata la scure, strappai le tre frecce dal suo corpo, l'afferrai per le corna, e cominciai a trascinarla verso la grotta; mi preoccupai naturalmente di recuperare le altre frecce e l'arco: senza di essi non avrei potuto prendere più niente.
    Ero circa a metà strada, e mi apprestavo a tornare trionfante dal piccolo; con quella gazzella potevo sfamare entrambi per una settimana, e poi... chissà cosa sarebbe avvenuto?

    I miei pensieri furono nuovamente interrotti da qualcosa: sentivo un movimento nell'erba dietro di me.
    Quasi mi maledissi per la mia stoltezza: il sangue! Non avevo tamponato la ferita, e non avevo mascherato la puzza del sangue dalla mia maglietta. Di sicuro quel tanfo metallico e invitante all'olfatto dei carnivori locali ne aveva attirato qualcuno.
    Sollevai la gazzella stecchita sulle mie spalle e sfoderai la scure: "Chiunque tu sia" tuonai terribile, "non osare avvicinarti!!"
    Dall'erba sbucò il peggio che mi sarebbe potuto capitare: era una leonessa gigantesca, dal manto bruno chiaro, dotata di una muscolatura vigorosa e possente: aveva gli occhi rossi stravolti dalla rabbia e una bocca spalancata, contenente una chiostra di zanne bianche e acuminate che non chiedevano altro che sbranare, fino a non lasciare un briciolo di me.
    Lasciai scivolare la mia preda lungo la schiena, e mi misi in posizione: questa non era una Iena Ridens, e - lo sapevo bene - difficilmente, ne sarei uscito vivo.
    Continua...

    Eggià... vi tengo tutti in suspence!
    (ridacchia)
    Lasciate qui i vostri commenti, grazie!


    Edited by Gaoh - 24/12/2015, 02:30
     
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155 replies since 20/2/2013, 14:49   3211 views
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