The Days of Love

l'ultimo capitolo della Trilogia

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    E dopo altri due mesi, finalmente, continuo: non che importi a nessuno a parte me, ma continuo.

    Capitolo 20: Soldati in allegria
    Residenza Ferguson
    Mercoledì, 5 agosto 1998, 20:00


    Per quel che mi riguardava, le cose stavano procedendo meglio di quanto chiunque potesse aspettarsi, o almeno, meglio di quanto io potessi aspettarmi: sapevo di non poter far cambiare idea a Ralph o a Leona - erano l'uno troppo testardo, e l'altra troppo premurosa nei miei riguardi per farlo - e con il passare del tempo, compresi di non voler affatto rifiutare il loro aiuto: forse, pensavo tra me e me, avrei avuto maggiori possibilità di successo con loro al mio fianco, forse insieme avremmo trionfato laddove io, da solo, avrei miseramente fallito...
    Forse... forse, non era necessario che io fossi da solo.
    La sola cosa che mi preoccupava, era come fare a nascondere tante armi per il viaggio di ritorno a Londra, e riuscire a spostarci con un simile arsenale: in fede, facevo affidamento sulle conoscenze politiche del Capitano Ferguson e sull'astuzia di Leona, affinché trovassero il modo; inutile parlarne con Ralph per due motivi: prima di tutto, lui non pensava mai prima di agire, e secondo, ogni suo metodo sarebbe stato sicuramente più illegale di quello che io mi ero riproposto.
    Con il passare dei giorni, mi facevo inquieto, e questo si rifletteva nel mio allenamento con Ralph e Leona: non mancava che alle volte colpissi con forza maggiore del dovuto, e bisognava ringraziare i buoni riflessi dei miei amici se non si fecero male; sapevano che ero inquieto, e con le loro parole cercavano di darmi la forza per cavarmela.
    Ma nemmeno loro potevano fingere di non essere preoccupati: sapevano a cosa andavano incontro stando al mio fianco, e non potevano permettersi il lusso di preoccuparsi per me.

    Fatto sta, che quel mercoledì, due giorni prima del ballo, il postino mi recapitò l'invito ufficiale alla piccola assemblea del Capitano Ferguson: ovviamente, l'invito era esteso a tutti e tre, e Ralph fu entusiasta all'idea di passare una serata di rozze carinerie con altri soldati, farsi una bevuta e cantare fino a notte fonda. Da parte mia, la cosa non mi entusiasmava, e sarei partecipato solo per compiacere il Capitano; in quanto a Leona, non si poteva nascondere che le piacesse darsi a qualche sollazzo di tanto in tanto, oltre al fatto che preferisse i suoi comodi abiti da soldato ai vestiti ingombranti e sfarzosi obbligatori per il ballo. Di fatto, la mia fantasia aveva preso spesso e sovente una nota perversa, a immaginare come sarebbe apparsa Leona con addosso un abito da ballo: non nego il fatto che era un'immagine al di fuori della portata del mio pensiero.

    Comunque sia, quella sera eravamo pronti, all'uso militaresco borghese, vale a dire, vestiti come capitava: Ralph e Leona indossavano i pantaloni mimetici, le canotte bianche e le medagliette - unica parte obbligatoria per i soldati che partecipano a simili raduni - mentre io avevo indossato abiti normali, pantaloni, camicia a quadri e un paio di sandali; inoltre, mi ero legato al collo un foulard stampato come la bandiera Americana, giusto per mostrare un pizzico di rispetto ai figli d'Inghilterra emigrati oltreoceano.
    Come fummo pronti, prendemmo nuovamente la jeep, e in venti minuti, eravamo già alle porte della villa, ma secondo l'usanza, saremmo andati nel locale sul retro, che era una specie di seminterrato, dove avremmo potuto godere di una baldoria sana e accattivante, l'ideale per rilassarsi in vista del ballo che sarebbe avvenuto meno di quarantotto ore dopo.
    A un certo punto, Ralph mi prese sottobraccio e mi esclamò stentoreo: "Nervoso, Abe?"
    "Perché mai dovrei esserlo?" gli domandai guardandolo storto.
    "Non essere teso" mi replicò lui senza rispondere, "è normale essere nervosi a queste festicciole tra uomini, quando si è passato tanto tempo lontano dalla gente: non ti preoccupare Abe!" esclamò gagliardo, dandomi un solenne strattone che per poco non mi spezzò il collo, "Dopo stanotte, ti sentirai molto, molto più a tuo agio in mezzo alla gente! Da' retta a me!"
    Leona sospirò, ma il suo volto era segnato dal suo bel sorriso: per quanto io non mi sentissi a mio agio, sorrisi a mia volta, e avanzai con loro nella buca della festa.

    La stanza era completamente ispirata a un locale del Far West, dalla porta, alla mobilia, al palcoscenico di fondo, allo schiamazzo nell'angolo del bar sulla destra, con tanto di pianoforte: la musica che ne scaturiva era la tipica baldanza dei cowboy, priva di fondamento ma dotata dell'impatto caratteristico che ti rimane nel cuore, e che quando l'ascolti, non puoi fare a meno di battere il piede e seguire il ritmo.
    Tra i circa quarantacinque soldati di età compresa tra i venti e i sessant'anni, presenti al raduno, c'era chi beveva birra, chi si raccontava storielle da uomini, chi si dilettava in estenuanti sfide a braccio di ferro, con risultati talmente pazzeschi che avrebbero sfondato anche la pietra, figurarsi quei poveri tavolini di legno che si reggevano a stento su una gamba sola; ero grato che perlomeno nessuno di loro fumasse: del resto, il Capitano non aveva mai fumato in vita sua, vista la fine del suo predecessore, morto ufficialmente di colera, ma secondo alcuni, deceduto per il suo pessimo vizio di fumare sigari cubani di qualità scadente.
    Ma il dettaglio più grande di tutti, fu di vedere James Ferguson in piedi sul palco, con Eleanor e Meethu al suo fianco, e nel vederli così, mi sembrava quasi di vedere i leoni in cima alla Rupe dei Re, a scrutare le Terre del Branco, e una lacrima sfuggì ai miei occhi... o per quello, o per il forte odore di alcol che pizzicava le narici.
    E fu allora, quando noi tre entrammo, che subito Meethu ci notò e richiamò l'attenzione generale con il suo ruggito; tutte le teste si voltarono verso di noi, e Ferguson esclamò a gran voce:
    "Compagni! Figli di Inghilterra, di Scozia e delle due Americhe! Salutate i nostri ospiti d'onore!"
    E il solenne saluto di quei soldati, rimbombò su di noi con forza tale da assordare, più del ruggito di qualsiasi bestia.


    --------------------------------------------

    "Siediti qua, ragazzo!" mi gridò subito un soldato sui trent'anni, porgendomi un boccale.
    "Da questa parte, Steinhart!" gridavano alcuni veterani dall'aria marinaresca da sinistra, "Vediamo se sei ancora in grado di battere i ragazzi a braccio di ferro, avanti!"
    "Ehi, Ross! Dove t'eri cacciato amico?"
    "Vi va un giro a poker?"
    "Chester! Prepara i tuoi drink migliori, oste della malora: offro io!"
    Da ogni angolo, da ogni bocca sorniona e avvinazzata ci lanciavano addosso richiami ospitali per unirci a quella rozza, tuttavia sincera ospitalità. Tipico dei soldati, pensai, e soprattutto tipico degli Americani, trattare i questo modo gli ospiti quando sono di buonumore: considerato che non volevo sentirmi troppo appiccicato a loro, andai a sedermi a uno dei tavolini vuoti, non tanto distante dal palcoscenico, dove potevo vedere tutto; subito Meethu balzò giù e venne ad accoccolarsi presso le mie gambe: Eleanor fece altrettanto.
    "Sono felice che tu sia venuto!" mormorò lui guardandomi con i suoi occhi buoni: riconoscente, gli carezzai le orecchie e la folta criniera.
    "Sono felice anch'io, Meethu."
    "Oh, signor Mist" ronfò dolcemente la bella Eleanor, strofinandosi contro la mia gamba, "sapeste quanto avete reso contento il mio padrone! Lui sapeva che sareste venuto, e così anche il signor Ross e la signorina Steinhart! Non potevate non venire, vero? Come avreste potuto non venire?"
    "Semplice: non avremmo potuto!" le risposi, anche se non ci avevo quasi afferrato nulla.
    "Signori!" esclamò all'improvviso Ferguson dal palco, facendo voltare tutte le teste e assicurando il silenzio e l'attenzione di tutti: la possanza della sua voce era tale da non richiedere microfono, e la sua autorità conquistava il cuore di tutti i suoi subalterni.
    "Stasera, siamo qui riuniti, per celebrare la presenza dei miei graditi ospiti!" E qui, un buon grido con calici alzati da parte dei soldati.
    "Stasera, ringrazieremo la loro visita e augureremo buona fortuna per il loro avvenire, con vino e canzoni!" Un altro grido coi calici.
    "Dopo stasera, dovremo tornare al mondo della fredda ragione, cui tutti noi apparteniamo, in vista del ballo di venerdì: ma per adesso, il tempo ci appartiene, quindi avanti signori! Chi di voi vuole essere il primo a salire sul palco? Non siate timidi signori miei, coraggio!"

    Dapprima un poco titubanti, anche perché in preda a sonore risate dall'idea di cantare in pubblico, alcuni si fecero avanti: dapprima, due giovanotti di neanche un quarto di secolo a testa, salirono sul palco e duettarono l'Inno Americano di Jimi Hendrix con delle stonature così clamorose da far esplodere l'intero seminterrato dalle risate; per me, non c'era nulla da ridere: era talmente disgustoso, il modo in cui cantavano, che io stesso non potei trattenermi dal ridere; poi fu il turno di un soldato grassoccio, più o meno dell'età di Ferguson, o forse più vecchio, che cantò con voce talmente grave da essere quasi inudibile; si succedettero almeno sei o sette altri in brani più o meno famosi, con il pianista - un certo William "Bill" Henderson - a fare da accompagnamento.
    Poi, con mia grande sorpresa, il Capitano si rivolse a me:
    "Allora, signor Mist... vuole decidersi a salire?"
    Un sovrumano silenzio si generò attorno a me, mentre io, per poco non mi soffocai nel deglutire il whisky che avevo preso per me. "Chi, io?"
    E un'ovazione generale mi travolse: perfino Meethu mi scosse la gamba.
    "Coraggio, che aspetti? Va lassù e fagli sentire come canti bene!"
    "Oh, la prego, Signor Mist, la prego!" mi supplicava Eleanor con gli occhi a palla.
    Come mi alzai a stento, l'ovazione di decuplicò, e come se mi stessi dirigendo al mio stesso funerale, salii sul palco.

    Mi sentivo straordinariamente ridicolo a stare lì, rigido come un baccalà e con lo sguardo perso nel vuoto, ma sentivo di potercela fare. Non sapevo cosa cantare, a parte la mia serenata, ma non era adatta a quel genere di pubblico. Tuttavia, conoscevo una canzone adatta per le feste tra uomini che poteva piacere; perciò mi rivolsi al pianista e gli sussurrai nell'orecchio la mia idea.
    Quello mi rispose con un gran sorriso. "Sarebbe un vero onore per me!"
    E dopo aver chiesto aiuto al Capitano Ferguson perché mi accompagnasse, mi rivolsi al pubblico, sollevando in alto il pugno.
    "Signori! Salamander!"

    Video

    Posso dire che la canzone fu un successo clamoroso, dato che tutti i soldati presenti si unirono a me nel canto, e la mia performance lasciò l'intera platea estasiata; tutti applaudirono, Elanor era estasiata e Meethu sorrideva compiaciuto mentre il Capitano mi dava delle pacche sulla mia ansante schiena: non lo nego, cantare un brano simile, mi aveva lasciato senza fiato.

    Dopo un altro paio di canzoni, sarebbe venuto il turno di Leona, ma lei si rifiutò categoricamente di cantare, e fu così che il turno passò a Ralph, il quale fu molto felice di accondiscendere; come fu salito sul palco, mi sarei aspettato di sentirlo cantare un brano dal Fantasma dell'Opera di Webber, ma invece si rivolse al pubblico con l'aria remissiva di uno scolaretto.
    "Questa canzone non è forse famosa come lo era un tempo..." non nego che queste parole mi incuriosirono parecchio.
    "Voglio solo dire che questa canzone, riguarda una persona molto importante per me... e non esistono canzoni migliori di questa per definirlo come lui è veramente. Perché lui è così... perché lui..."

    Video

    Fu un trionfo generale: gli applausi piovvero per Ralph, Leona stessa applaudì estasiata, ma io ero rimasto spiazzato; non mi sarei mai aspettato un tributo simile da parte sua. Per quanto i soldati fossero convinti che l'"Inglese" del famoso brano di Gillbert e Sullivan fosse il Capitano Ferguson, io sapevo benissimo, che lui si riferiva a me. Non riuscivo a capacitarmi di quanta fiducia quello Yankee riponesse in me: io per Ralph ero una persona importante, anzi una delle più importanti... nessuno mi definiva più con simili termini dai tempi di... ah, perché... perché in un momento così bello dovevo pensare nuovamente a lei??
    Nonostante il risveglio improvviso di quel ricordo, rimasi comunque commosso, ma per buona fortuna non lo notò nessuno, a parte Meethu, al quale non potevo nascondere ormai nulla più di me.

    La serata passò con baldanza assoluta e tante altre canzoni di cui è meglio non parlare: innanzitutto, sarebbe inopportuno, e secondo, molto doloroso per la psiche di voi posteri che leggete di questi avvenimenti.
    Fatto sta che verso l'una di notte, tutti noi stavamo tornando nel mondo della fredda ragione, come aveva predetto il nostro Capitano: era necessario perché avevamo ormai superato l'ora d'ordinanza per andare a dormire; l'indomani, avremmo avuto tutti da fare, chi doveva prepararsi per il ballo, chi per fare la guardia al ballo, il grande evento che in meno di quaranta ore avrebbe segnato una svolta in tutta Nairobi.
    E l'avrebbe segnata, ma come nessuno si sarebbe potuto immaginare.
    Il dolore per quella ferita è rimasto in me, non è mai guarito, come quando Mina morì.
    L'orrore causato per mano di un solo folle, assetato della mia morte.
    Non avrei mai goduto un'altra notte di pace da quel giorno in avanti.

    Mai più.

    TO BE CONTINUED


    E ora, tra poco, cominciano i dolori... lasciate qui il vostro commento, grazie.
     
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    Ok... dato che è Pasqua, dopo tutto questo tempo, è ora di portare questa FF nel 2016!

    E dato che ho un giorno libero anche domani, meglio postare ora e riposare domani per ricaricare.
    Buona lettura.

    Capitolo 21: L'Ultimo Giorno
    Residenza Ferguson
    Giovedì, 6 agosto 1998, 10:10


    La mattina seguente, pur stremato com'ero, riuscii ad alzarmi grazie anche allo sprono di Ralph che venne a buttarmi giù dal letto senza troppi complimenti; non mi ero ancora ripreso del tutto dai canti e dai festeggiamenti di quella sera precedente... e pensare che da lì a poco più di ventiquattro ore, ci sarebbe stato il grande ballo all'ambasciata di Nairobi... il solo pensiero mi terrorizzava.
    "Coraggio, Abraham! Il sole splende ed è una bella giornata!" mi tuonò gioviale l'impetuoso Yankee trasportandomi - letteralmente - giù in cucina, dove potei mettere qualcosa nello stomaco, ingollare un buon caffè bollente e svegliarmi del tutto: non voglio lasciar intuire quanto dovetti aspettare perché quel caffè maledetto si raffreddasse, da quanto fosse caldo... sta di fatto, che Leona era già fuori a esercitarsi con la spada; notai che aveva preso confidenza, ma il suo stile era ancora gretto e privo di profondità: da non credere quanto fosse poco pratica di quel genere di armi...
    "Con uno spadone lungo, bisogna usare tutto il corpo per lo slancio, imparando a fermarsi per non lasciarsi trascinare dall'impeto." così le avevo spiegato, e lei aveva imparato in fretta, ma lasciava ancora molto spazio tra un colpo e l'altro: un'attaccante veloce l'avrebbe costretta alla difensiva, e rapidamente disarmata.
    Speravo sinceramente di non aver fatto la scelta sbagliata ad acconsentire il loro aiuto in quella fatidica missione; più ci pensavo e più sentivo su di me l'agghiacciante presa del destino. Ancora due giorni, e finalmente, avrei potuto concentrarmi sul compito che mi ero prefissato: tornare a Londra, organizzarmi, e dare la caccia a Clark Thrive, l'uomo che avevo condotto alla rovina e che ora mi braccava senza sosta, fino alla morte: o la sua o quella di entrambi, non mi importava come sarebbe finita, lo avrei visto cadere, per non rialzarsi più: era un pensiero feroce, degno della più vile delle bestie, eppure, non provavo alcuna vergogna nel pensarlo, ricordandomi quanto mi avesse fatto soffrire a Praga... anche se sapevo che Mina non avrebbe mai approvato una simile vendetta, ormai non me ne importava nulla; fintanto che lui era vivo, innumerevoli sarebbero stati in pericolo, e io non potevo permetterlo.
    Passai tre ore, fino all'una e mezza con Leona, a vederla farsi lentamente ma costantemente più veloce nei movimenti: le insegnai ad affilare la spada e le donai una cote personale perché potesse continuare a lavorarci da sola; Ralph, d'altra parte, non aveva bisogno di aiuto: lui e il suo arsenale erano in sintonia, uno stile brutale ma veloce e preciso; l'unico problema era che in uno spazio stretto sarebbe stato impraticabile.
    "Dovremo tenerci dietro di lui," mi dicevo, "o finiremmo col venire polverizzati dalla sua mazza..."
    "Sarebbe capace di annientare anche portelloni d'acciaio" mi rispose Leona, condividendo il mio pensiero.

    Durante il sobrio ma sostanzioso pranzo, i miei pensieri andarono a Meethu e alla bella Eleanor: anche quella mattina non li avevo visti; speravo che non si fossero messi nei guai, ma il mio cuore era tranquillo: conoscevo bene i miei leoni, abbastanza da sapere che non avrebbero fatto altre pazzie, lasciandosi trascinare dai loro sentimenti. Mi ripromisi tuttavia di fargli una visita, quel pomeriggio stesso: sarebbe stata forse, l'ultima volta che lo vedevo, dicevo tra me, e quindi, dovevo far valere quegli ultimi istanti insieme.

    Il pomeriggio di quel giovedì sei agosto era particolarmente afoso e sonnolento, e c'erano le solite sette miglia dal motel fino alla villa di Ferguson; il popolo di Nairobi era placidamente nascosto all'ombra dei suoi grattacieli in centro, delle sue pompeiane di tela e delle sue cupole nei sobborghi cittadini: l'asfalto fumava sotto il sole cocente: andare fino alla villa a piedi sarebbe stato un duplice suicidio, poiché si poteva stramazzare o per un colpo di sole, o per ustioni estese ai piedi, anche indossando i migliori stivali inalterabili; nemmeno io, superstite come sono, sarei sopravvissuto a un'escursione del genere.
    Ragion per cui, dovetti chiedere a Ralph di darmi un passaggio.
    Lo scellerato tentò di farmi guidare, e parola mia, non seppi distinguere la differenza tra i tre pedali, e dopo almeno cinque minuti di proteste prima serie, poi furenti da parte mia, riuscii a convincere Ralph a guidare, non prima che lui mi facesse uscire con la retromarcia, naturalmente.
    In fede, fu meno difficile di quanto pensassi, ma con le dimensioni colossali della jeep, era difficile misurare la distanza: per un povero disgraziato privo di patente e della benché minima esperienza alla guida, fu la cosa più vicina ad un incubo.

    Non rivolsi più la parola a Ralph per il resto del viaggio: lui lo capì bene di aver fatto una scemenza, rispettò la mia decisione, e tacque, ma lo vedevo bene che sorrideva contento di avermi fatto venire un coccolone, seppure per scherzo.
    Ebbi qualche sollievo ad aprire il finestrino: l'aria smossa ad alta velocità dallo spostamento della macchina mi rinvigorì a sufficienza per quelle ore successive, ed ero quasi convinto di poter reggere fino al tramonto.

    Mi prodigai, ovviamente, di cercare più ombra possibile come prima cosa e guardai dietro la villa, tra i fornai dove avevo conosciuto la bella leonessa, così simile a Zira, eppure così straordinariamente diversa in ogni aspetto: meno malmessa, più gentile, più infantile, più meravigliosamente ignorante di ciò che lei era e cosa doveva essere in futuro.
    Povera vecchia amica mia... chissà cosa le passava per la testa in quel momento? Non volli pensarci, e scacciai quel triste ricordo: di sicuro, se l'avessi incrociata da quelle parti, non avrei potuto difendermi facilmente dalla sua rabbia. Rammentavo fin troppo bene cosa mi aveva detto Dotty, quando la rividi per l'ultima volta, quel giorno che ero tornato nelle Terre del Branco, quasi tre mesi prima.
    Ma sto divagando. Tornando al punto, aprii lo sportello della cabina di Eleanor, ma trovai soltanto il suo giaciglio di tappeti sfatti e consumati dal tempo, di lei neanche l'ombra.
    Frugai per tutto il retro, tra i silos e gli alloggi vuoti dei domestici, ma niente neanche lì; soltanto dopo un buon quarto d'ora, riuscii a localizzarli, nascosti nel giardino laterale, tra i cespugli: sonnecchiavano dolcemente assieme, lei con la testa poggiata sulla robusta schiena di lui, ma non erano propriamente addormentati, perché mi sentirono arrivare e si alzarono.
    "Abraham!" mi salutò Meethu, trotterellando verso di me. "Signor Mist!" gli fece eco Eleanor, seguendolo di corsa. Le loro teste villose erano cariche di umidità per l'intensità del calore, e ritrassi le mie mani tutte bagnate dopo avergli scompigliato la criniera.
    "Lieto di trovarvi ancora una volta insieme..." mormorai, guardandoli intenerito: Meethu non aveva mai avuto un'aria così felice e realizzata come lo vedevo ora. Era maturato, un leone non dissimile da suo cognato Simba, degno fratello di Nala e figlio di Sarafina, che fu come una sposa per me, o almeno, così lei mi disse; sorrisi a quei ricordi che mi legavano alla Rupe dei Re, ormai lontana.
    Eleanor, essendo la solita chiacchierona, non fece complimenti, e mi trascinò in una fiumana di domande, trottando al mio fianco mentre passeggiavamo lungo la piscina.
    "Il ballo è domani sera, non è vero Signor Mist? Si sente nervoso, vero? Oh, la mia povera padrona è così eccitata, sapeste... non riesce a trattenersi. Ci sarà tutta l'élite di Nairobi all'ambasciata, così l'ho sentita dire, non sa quanto mi piacerebbe andarci... oh, ma che sciocca sono, dovrei essere umana per andarci. Glielo direte da parte mia vero? Non vorrei mai che si preoccupasse per me, ma il mio padrone sa che tutto andrà bene, non è vero? Sarà una serata memorabile e... !"
    "Calma! Calma!!" riuscii a frenarla prima che mi sommergesse. "Piano con le chiacchiere, bellissima Eleanor. Non sono abituato a far conversazione in questo modo, soprattutto se va a senso unico." ridacchiai, ancora stupito dalla sua capacità di esprimersi.
    "Oh, mi scusi" fece lei, arrossendo piacevolmente, "è che sono così felice!" Improvvisamente, la vidi illuminarsi, come se le fosse venuto in mente un pensiero incredibile, straordinario. "Oh, giusto, non le ho ancora detto la parte migliore!" si voltò eccitatissima verso il suo compagno. "Glielo posso dire, vero Meethu? Oh, ti prego dimmi che posso! Ti prego, ti prego, ti preeeeeego!!" Era letteralmente al settimo cielo.
    Meethu sorrise. "Non c'è motivo di tenerglielo segreto, puoi dirgli tutto, puoi fidarti di lui."
    Il mio lato inglese, amante dei segreti si riaccese da quello scambio. "Che cosa mi nascondete, voi due?"
    Eleanor mi fissò raggiante. "Se sapesse, signor Mist, quanto sono felice!! Ancora non mi sembra vero! Meethu, oggi stesso ha chiesto ai miei padroni il permesso di sposarmi! Non è magnifico?"

    Rimasi basito per pochi secondi: dovevo registrare quanto avevo sentito. In breve però, la sorpresa lasciò spazio alla felicità.
    "Meethu... Eleanor... è... è meraviglioso! Sono felice per voi!"
    "Oh, Abraham!!" esclamò Eleanor, gli occhi luccicanti di lacrime: si rizzò appena sulle zampe posteriori per portare la testa al livello del mio petto e si lasciò stringere, facendo le fusa.
    Il sorriso di Meethu si fece ancora più grande. "Sono andato con Eleanor dalla compagna di Ferguson e l'ho portata da lui: volevo che ci fossero entrambi, e gli ho mostrato a gesti quanto fosse forte il mio sentimento per Eleanor; loro hanno capito subito, anche grazie alle suppliche di Eleanor."
    "I miei cari, cari padroni mi hanno sempre capita subito, e hanno dato il loro consenso! Oh, signor Mist!!" Eleanor si strinse ancora più forte a me, rischiando di mandarmi a terra, ed effettivamente, caddi sul posteriore, lasciando che l'euforica leonessa si effondesse in moine ed effusioni sulla mia persona per quasi cinque minuti buoni.
    Quando mi fu dato il permesso di rialzarmi, potei guardarli bene: stavano meravigliosamente, insieme.
    E quando guardai di nuovo Meethu, capii che il nostro tempo insieme era ormai giunto al termine. Ma dovevo ancora parlargli... un ultima volta.



    --------------------------------------------

    "Eleanor... potresti lasciarmi solo con Meethu per qualche momento? Ci sono alcune cose che devo dirgli"
    Lei rimase perplessa per un secondo. "Come? Oh, be'... sì, certo: come vuole lei..."
    E in quattro e quattr'otto, si allontanò, lasciandoci soli nel mezzo del giardino per andare a rifugiarsi nell'ombra del suo rifugio.

    Come fummo soli, mi sedetti sull'erba, per avere Meethu all'altezza degli occhi; era diventato davvero un esemplare magnifico.
    "Abraham..." cominciò lui, perplesso e preoccupato, ma io lo interruppi subito.
    "Ascolta, Meethu: non voglio sentire proteste o piagnistei da parte tua. Per quel che mi riguarda, hai fatto una scelta stupida nel volermi seguire, e questo non posso perdonartelo!"
    Lui chinò la testa, rattristato: sapeva bene che disobbedendo al mio ordine, aveva rischiato molto.
    "Mi dispiace."
    "Questo non cambia nulla! A quest'ora dovresti già essere alla Rupe dei Re, sistemato con una famiglia, lontano da me e da tutto ciò che riguarda il mondo degli uomini!"
    Meethu rimase in silenzio, colpevole.
    "Tuttavia" continuai, addolcendo il tono e spingendolo a guardarmi di nuovo, "da questo tuo errore, sei riuscito a ricavare più di quanto chiunque potesse immaginare: hai trovato la tua anima gemella, e io non potrei essere più felice di così per te... e per questo ringrazio il cielo e Colui che lo governa e opera in modi veramente misteriosi, provocando il bene anche dagli errori."
    "Abraham..." Meethu mi fissò con un sorriso sciocco.
    "Io ti auguro di essere felice con colei che hai scelto, Meethu, perché so che lei ti renderà più felice di quanto potrebbe fare qualunque altra leonessa."
    Lentamente, gli presi la testa tra le mani e lo fissai con intensità negli occhi. "Mi prometti dunque, che avrai cura di lei finché entrambi avrete vita?"
    "Ma certo che lo prometto!!" esclamò lui, come se avessi chiesto una cosa assurda. "Io la amo!"
    "Rammenta" gli dissi con tono di massima serietà, "che ella non è ancora una vera leonessa; essendo cresciuta tra gli uomini che poco comprendono della vita selvaggia, sarà tuo compito farla diventare ciò che lei deve essere! Me lo prometti questo, Meethu?"
    "Sì!" ripose lui, altrettanto serio.
    "Saresti tu dunque disposto a tutto per lei?"
    "Financo alla morte!!" ringhiò lui con un tono da non ammettere replica. Io sorrisi, sospirai il mio sollievo, e lo lasciai andare.
    "Allora non ho altro da aggiungere, se non rinnovarti il mio augurio di serenità e felicità. Questo potrebbe essere il nostro ultimo incontro, e per questo ho voluto parlarti."
    "Abraham..." riconobbi l'antica tristezza dell'abbandonato nella voce di Meethu.
    "Niente piagnistei, cucciolo mio" lo frenai subito, "ora sei un leone maturo, e sai cosa ci attende: tu hai la tua vita, io la mia missione. Le forze del fato non vogliono che io rimanga in Africa, ed entro tre giorni, le nostre strade si separeranno per non incrociarsi mai più. Lo capisci questo, Meethu?"
    Il mio povero leone rimase per poco in silenzio, ma quanto cominciai a temere che non avrebbe risposto, chinò il capo e lo appoggiò sul mio cuore.

    "Lo capisco, Abraham." Sentii dolcezza e risolutezza nella sua voce; mi guardò negli occhi, e vidi colpito, che sorrideva. "E non protesterò più: anche se tu te ne andrai, non ti dimenticherò, e così non farà Eleanor e non lo faranno neanche gli altri alla Rupe dei Re! Tu sei uno di noi, Abraham, fino in fondo... e lo sarai sempre, anche tra mille generazioni di leoni o di uomini. Sei mio amico, e ti vorrò sempre bene!" concluse lambendomi il volto con la calda e ruvida lingua, cogliendomi un po' alla sprovvista e mi fece tossire.
    "Scusa..."
    "Non preoccuparti" gli risposi, spedendo la mia sinistra a carezzargli il mento e il collo. "So che non mi dimenticherai, e nemmeno io lo farò. Come Simba, Nala, Sarabi e tutti gli altri, anche tu sarai nel mio cuore fino alla morte... sei come un figlio per me, Meethu, e quale padre sarei se ti dimenticassi?"
    "Oh, Abraham!" si strinse a me con forza tale da costringermi sulla schiena, e non mi lasciò andare per qualche minuto buono, ma non protestai: era così piacevole venire stretti e schiacciati in quell'abbraccio feroce e colmo di vita.
    Dopo che mi fui rialzato, gli posai un bacio in fronte, mentre lui continuava a leccarmi le mani, e lo fissai negli occhi.
    "Sei davvero diventato grande Meethu: non potrei essere più fiero di te."
    E con quella feci per allontanarmi: era ormai cominciato il tramonto.
    Tuttavia, il richiamo del mio leone mi fece voltare di nuovo. "Almeno potremo rivederti domani sera, vero?"
    Io sorrisi. Non era affatto cambiato, e mi auguravo di tutto cuore che non cambiasse mai.
    "A domani sera dunque, Meethu!"
    E mentre mi allontanavo, lo sentii rispondere per quella che sarebbe dovuta essere l'ultima volta.
    "A domani sera!"

    Quella notte, l'ultima che passai a Nairobi, fu popolata di strani sogni, dove io e Meethu correvamo insieme a Eleanor sulle colline delle Terre del Branco, e vedemmo insieme il sole sorgere sulla Rupe dei Re, meravigliosa nella luce dell'alba: nonostante la natura onirica fosse incomprensibile, sapevo fin troppo bene che era soltanto un sogno... e tuttavia... per un solo istante osai sperare che quel sogno diventasse realtà.

    TO BE CONTINUED



    So già che nessuno lascerà commenti, ma che ci posso fare?
    Alla prossima, Forum! ;)

    Edited by Gaoh - 30/3/2016, 18:37
     
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    Ho preso la mia decisione. Visto che nessuno commenta più, andrò avanti come farebbe Abraham: da solo.
    Ogni sabato e ogni domenica, salvo imprevisti - quali, dimenticarmi - un capitolo.
    Voglio finire questa FF. Adesso. Non potete capire.

    Capitolo 22: Notte di incanti
    Ambasciata di Nairobi
    Venerdì, 7 agosto 1998, 8:00


    Giunse così, il giorno tanto atteso: tutta la città era in fermento; i signori residenziali, la gente di classe e tutte le persone più in vista di Nairobi avrebbero partecipato, con un invito ampiamente esteso anche alla gente meno fortunata: era di somma importanza avere un abito da sera elegante.
    Da parte mia, nonostante quello che mi aveva detto il Capitano, non mi sentivo a mio agio con il mio smoking dall'aspetto formale e tutt'altro che elegante: sarebbe stato più adatto a un funerale, e senza un fiore all'occhiello, non sarebbe stato adatto neanche per un banchiere, figurarsi per un ballo.
    Leona, che intuiva le mie preoccupazioni - e oltretutto gestiva la nostra situazione economica con una maestria che non ci si aspetterebbe mai da chi non la conosce - si occupò anche di questo, e infatti, quella mattina mi aveva fatto trovare sul comodino una piccola rosa artificiale da usare per avere un aspetto quantomeno elegante, e aveva aggiunto anche una bombetta nera e dei guanti da sera in tinta; rimasi sorpreso da come mi stesse bene, e per un breve, macabro secondo, sospettai che Leona mi avesse preso la circonferenza della testa mentre dormivo... la cosa era inquietante.
    Ma se pensavo che il ballo sarebbe stato l'ordalia per eccellenza, povero me, non era che una miserrima illusione, poiché Leona non mi lasciò andare per tutta la giornata: era diventata come una specie di mania delle grandi pulizie, e io sorrisi inconsapevolmente nel vederla così; nonostante tutto, non poteva negare la sua natura femminile, e questo era meraviglioso.

    Tuttavia, devo ammetterlo: quel giorno mi sballottò senza pietà da una parte all'altra del motel e dintorni.
    Tanto per cominciare, mi disse che i miei capelli selvaggi, incolti, arruffati e lunghi quasi fino alla cintola, erano qualcosa di improponibile per quella serata, e così me li tagliò corti, straordinariamente corti, facendomi un taglio quasi militaresco a spazzola, ovviamente, per tenere nascosto il colore bianco dei miei capelli.
    "Non è necessario!" mi ricordo che protestai a un punto. "Anche la mia carnagione è bianca; non farà tanta differenza!!"
    "Sciocchezze!" replicò lei in preda alla foga. "Questa serata dovrà essere perfetta, e tu in quanto ospite del Capitano dovrai fare bella figura; è il minimo che tu possa fare per la sua ospitalità!"
    Ralph si sbellicò dalle risate quando mi vide con quel taglio orribile, tanto che non riuscì a spiccicare parola: ero imbarazzatissimo, arrossito come un peperone, e gli augurai apertamente di soffocarsi dal ridere, senza però intenderlo sul serio.
    Nonostante quanto mi facesse sentire a disagio, era pur sempre mio amico, e lo è tuttora dopo tanti anni, e non mi sarei mai potuto arrabbiare seriamente con lui... almeno non per più di qualche minuto.

    Il pranzo fu sobrio e leggero per tenerci leggeri in vista degli eventi che sarebbero avvenuti di lì a poche ore - inutile dire che saltammo l'allenamento a piè pari - e dopo una leggera passeggiata, mi dedicai a una lunga e solenne doccia; nonostante mi sentissi completamente ridicolo all'idea di partecipare al ballo, il mio istinto naturale di britannico, amante delle arti e delle cose belle, mi imponeva un atteggiamento dignitoso nei confronti della città e del mio ospite.
    Era imperativo: dovevo essere impeccabile.

    Le ore passarono silenziose, ma quando la sveglia convenientemente impostata suonò le cinque e trenta in punto fu l'ora di muoversi: ero già con i pantaloni, la camicia e i mocassini; mi legai la cravatta al collo con destrezza - acquisita con ore e ore di disastrosi tentativi - indossai la giacca e mi fissai i gemelli d'argento ai polsi, concludendo applicando la rosa artificiale all'occhiello sopra il cuore.
    Guardandomi allo specchio, non potei evitare una gelida morsa allo stomaco: così ben vestito, il volto rimpolpato dai deliziosi manicaretti del posto, elegante e con la bombetta in mano, sembravo veramente uno di quei gentlemen rispettabili che sono soliti passeggiare per le vie di Londra. Osai indossare la bombetta e rimasi interdetto. Non mi mancavano altro che una valigia e un ombrello, e nemmeno Meethu mi avrebbe riconosciuto.
    "Dunque è così, che sarei dovuto diventare un giorno..."
    Era terrificante, vedermi così: se non fosse stato per quel tragico incidente a White Chapel, non sarei mai diventato un eremita, non avrei mai conosciuto il mondo al di fuori della fumosa Londra, e forse sarei potuto diventare un banchiere, o un ricco imprenditore, o un funzionario pubblico, oppure... chissà... forse, con l'istruzione adeguata, avrei potuto anche dedicarmi alla politica, financo a diventare... giuro, risi quando questa possibile professione mi venne in mente... Primo Ministro d'Inghilterra.
    Ma no, ciò non sarebbe mai stato: era soltanto un'ipotesi, completamente scartabile per giunta. Nulla di quel mondo appariscente mi apparteneva: io ero quello che ero, e nulla avrebbe mai potuto cambiarlo, e inoltre, dopo tanti anni passati a viaggiare e a combattere per sopravvivere, io non desideravo altro che una vita tranquilla e felice, magari in qualche piccolo podere in campagna, senza pensieri e senza troppi intoppi, una vita normale... sarebbe stato bello... ma il mio posto non era ancora stato stabilito: anche se in cuor mio, morivo dalla voglia di tornare nelle Terre del Branco e restarvi per il resto dei miei giorni, sapevo che la mia missione, e coloro che si annidavano nell'ombra pronti a estinguere la mia vita non me lo avrebbero permesso fino alla fine. Giurai ancora una volta a me stesso che non avrei avuto pace finché fossero rimasti in vita, soprattutto lui...
    Ah, ma che mi stava succedendo? Perché proprio in quel momento dovevo pensare a quelle cose orribili? Era come se presentissi chissà quale catastrofe, anche se non c'era quasi nulla da temere.

    Per fortuna, la voce di Leona venne dal piano di sotto ad informarmi che la mia macchina era arrivata: le cose erano state fatte in grande, visto che ogni ospite avrebbe avuto la sua auto per la cerimonia, e dato che io e Leona non eravamo imparentati, avremmo avuto entrambi una vettura personale per il ballo.
    Lei non era ancora pronta e mi avrebbe raggiunto solo un quarto d'ora più tardi.
    Ci sarebbe voluta quasi un'ora per arrivare dal motel all'ambasciata in municipio, considerando anche l'intensità del traffico intento a dirigersi a quel galà tanto atteso e accuratamente preparato: ignoravo completamente i motivi dietro a quella celebrazione, ma che mi importava di saperlo? Era la mia ultima notte a Nairobi, ed ero intenzionato più che mai a godermela fino in fondo.


    --------------------------------------------

    Il municipio e l'ambasciata erano un qualcosa di incredibile ed indescrivibile: il salone attiguo per i ricevimenti era stato spazzato e lucidato, tutti i banconi erano stati spostati, rimossi come se avessero dovuto svanire dalla faccia della Terra; immensi candelieri elettrici a parete diffondevano con la loro luce bianco dorata l'atmosfera del ricevimento; erano soltanto lei sette in punto, e una buona ora sarebbe stata dedicata alle presentazioni e a quello che sarebbe stato solo il preludio delle conversazioni che si sarebbero svolte tra un giro di valzer e l'altro; dopo la cena leggera, disposta più che altro in lunghe tavolate per il self-service, tutti avrebbero potuto godersi il ballo in santa pace.
    Personalmente, avrei preferito attendere Leona nell'atrio e accompagnarla personalmente al salone, ma dato che, tanto per cominciare lei mi aveva richiesto di cominciare pure a divertirmi - per quanto possibile - senza di lei, e che a stare immobile come uno stoccafisso nell'atrio avrei fatto una imbarazzatissima figura, decisi di distrarmi con le delizie del buffet.
    Parecchia gente - in particolar modo i meno ricchi - non faceva complimenti ad assaggiare e a decantare la superba delizia delle tartine al merluzzo o ai tartufi, o dei gamberetti da cocktail e del formaggio locale, o servendosi delle ottime tazze di ponce alle arance sanguigne, o assaporando i deliziosi filetti sciroppati della frutta esotica portata fin lì dalle lontane giungle equatoriali. In fede, io non avevo fame: ero così nervoso che non sarei riuscito a mandare giù un singolo boccone, e perciò cominciai a camminare in modo vago a contemplare la singolare bellezza del municipio.
    Per mia buona fortuna, incappai relativamente presto nel Capitano Ferguson e sua moglie, o meglio, la sentii chiamarmi.
    "Signor Mist! Signor Mist! Da questa parte!!"
    Erano una gioia per gli occhi; il capitano indossava la sua migliore uniforme bianca con una lunga fascia di cachemire azzurra arabescata come quelle dei turchi a tracolla, la medaglia d'onore dell'Ordine britannico ben in vista e il cappello da ufficiale diritto sulla fiera fronte; mentre Jasmina era una visione, con il suo lungo abito a sbuffo rosso vivo, una ricca collata di perle e un lungo velo roseo le ricopriva i lunghi capelli, degna cornice del suo sorriso meraviglioso: salutai l'una con un baciamano quantomeno elegante, e l'altro con una stretta di mano che cercai di far sentire vigorosa al pari della sua.
    "Benvenuto, Mist, benvenuto!" mi salutò il Capitano con voce colma di gioia. "Sapevo che non ci avrebbe deluso. Vi trovo in gran forma!"
    "Troppo gentile, sir." ringraziai schermandomi.
    "Siete uno splendore!" trillò Jasmina Ferguson deliziata. "Ma guardalo, caro: non trovi anche tu che sia adorabile?"
    "Decisamente" confermò lui con aria esperta. "Sono bastatati pochi ritocchi, e ora sarete più che in grado di trovare una signorina disposta a ballare con voi."
    Io deglutii a stento: quel poco di ballo che avevo imparato nei pochi giorni a mia disposizione potevano aiutare ma non ne ero del tutto sicuro.
    "Mi dica, Mist," riprese il vecchio ufficiale, con la sua solita aria, "dove si è imboscata la signorina Steinhart? Non doveva venire anche lei?"
    "Ha detto che mi avrebbe raggiunto presto..." mormorai guardandomi intorno, sperando di vederla, ma non vidi nessuno tranne che folle di gente, coppiette e uomini d'affari, la serra dell'alta società.
    "Si assicuri di non farla aspettare" mi redarguì il Capitano sornione come un vecchio leone, "Ci sono cose che un figlio d'Inghilterra non può permettersi di trasgredire, come far aspettare la propria dama. Ma la notte deve ancora cominciare, perciò mio caro, si rilassi, e cosa più importante, si goda il ballo!"
    E con il suo saluto, si allontanò insieme alla sua sposa per andare a far conversazione con l'élite di Nairobi.

    Personalmente, mi sentivo un pesce fuor d'acqua: quasi non sapevo più dove mi trovavo, e mi trovai, mio malgrado, a fare lo scimunito mestiere di statua, finché a un certo punto, il tocco di una mano sulla schiena non mi fece trasalire, assieme a una voce sommessa.
    "Abraham?"
    Per un breve istante non riconobbi la figura di fronte a me, e se non fosse stato per i lunghi capelli violacei, non l'avrei mai riconosciuta.
    Leona stava di fronte a me, ma era troppo bella per essere lei: indossava un vestito bianco con un body stretto e senza spalline, mettendo in mostra le sue spalle atletiche, ma questo non la rendeva meno avvenente; la gonna, larga ma non a cupola, non permetteva di vedere i piedi e le calzature da quanto era lunga; al collo, portava un vezzo d'acquamarina legato con una cordicella d'oro, su entrambi i lati della testa portava un fermaglio bianco a forma di giglio, e i lunghi capelli sciolti e annodati in innumerevoli trecce dietro la nuca, erano ricamati a oro e diamanti: era una meraviglia a vedersi, e la mia mascella minacciò di staccarsi.
    "Ehm..." fece lei, imbarazzata al pari di me, "come sto? Non sono troppo fuori luogo, vero? Con questi muscoli, non dovrei indossare cose del genere..."
    Io la zittii subito, posandole l'indice sul labbro inferiore: non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso.
    "Sei bellissima."
    Lei arrossì piacevolmente, e non appena mi ripresi dallo choc della sua apparizione, le porsi il braccio, lasciando che si acciambellasse con me, e insieme, ci dirigemmo verso il salone.

    Eravamo ancora in anticipo per le danze, almeno altri tre quarti d'ora passarono, senza che accadesse nulla, e io e Leona, passeggiammo per la galleria laterale senza curarci di nulla e chiacchierando del più e del meno con i vari ospiti: non mi ero mai sentito così straordinariamente ordinario in vita mia.
    E quando finalmente cominciarono le danze, fu proposta una magnifica quadriglia, sorta di danza a gruppi dove i ballerini si scambiano continuamente la dama; ero nervoso al limite, ma guardando bene i passi del primo quartetto di coppie, tra cui parteciparono anche il Capitano e sua moglie, riuscii a comprendere le movenze da eseguire.
    Dopo altri due gruppi, toccò anche a me e Leona.
    A ogni cambio, mi passò di mano una damigella bionda e minuta con gli occhi azzurri e l'espressione ingenua e sorridente, una brunetta dall'aria sbarazzina e con un vestito verde e un'altra bruna, questa volta di sangue della Tanzania, con i capelli raccolti in una treccia lunghissima e una lunga veste nera; prima che Leona potesse tornarmi tra le braccia, la melodia era già finita, e ognuno tornò al proprio posto.
    Penso di essermela cavata, ma non posso dirlo con certezza, perché mi ero semplicemente lasciato andare, trasportare per così dire dalla melodia.

    Seguirono un fox-trot, una vigorosa mazurka, campagnole inglesi e scozzesi, tipiche dei villici del contado, che sono tanto amate dagli Africani, e a un certo punto, vi furono anche alcune danze tribali eseguite da alcuni ballerini e acrobati del luogo: le luci vennero abbassate e gli incredibili danzatori fecero roteare in aria dei bastoni dalle estremità fiammeggianti, sul ritmo incalzante del tamtam e dei sonagli di ferro: era uno spettacolo surreale.
    Come fu terminata la straordinaria melodia, i ballerini si eclissarono sotto le volte delle gallerie, e quando tornò la luce, erano spariti. Il pubblico intero si sciolse in un applauso.
    Dopo questo incantevole interludio, circa alle nove inoltrate, venne finalmente la volta del Grande Valzer brillante, suonato a più riprese per far durare quella notte magica: non potei cominciare con Leona, ma tra le varie dame che mi passarono tra le mani, vi fu anche la bellissima Jasmina, che fu estasiata di ballare con me, tra salti e volteggi che avrebbero fatto girare la testa a una trottola.
    Ma finalmente, quando pensai che la musica sarebbe finita prima del tempo, Leona mi ritornò di fronte, e dopo averla fissata a lungo negli occhi, come se avessi voluto stringerla a me per sempre, riprendemmo a ballare insieme, e come tutti i ballerini con le loro dame, la sollevai verso la volta stellata del municipio, raggiante nella luce del gran lampadario a energia elettrica.
    Un passo dopo l'altro, continuammo a ballare, e volteggiammo, turbinammo insieme nel cuore della grande sala, e come se fossimo stati un solo essere, nell'ebbrezza comune, lo sentivo da come l'attenzione si era spostata su noi due, fummo l'astro più raggiante di quella danza, perché gli altri danzatori si erano fatti da parte per farci spazio.
    E quando la musica crebbe in un crescendo immenso, sollevai Leona per l'ultima volta, più in alto che mai e concludemmo insieme quella danza universale.

    TO BE CONTINUED
     
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    Si prosegue.

    Capitolo 23: L'ultima notte
    Ambasciata di Nairobi
    Sabato, 8 agosto 1998, 01:00


    Fu il brivido di un'istante, quando la musica ebbe fine, e il silenzio si fece padrone della sala; per pochi secondi guardai Leona negli occhi, ma prima che potesse sfuggire un riso imbarazzato a uno dei due, lo scroscio improvviso dell'applauso da parte degli spettatori ci travolse: fu un'acclamazione unanime. Parecchi vennero a farci i complimenti e a congratularsi per quella che definirono come una 'superba esecuzione' degna dei più audaci amanti; personalmente, mi sentii profondamente in imbarazzo... ah, se Meethu o un qualsiasi leone o leonessa mi avesse veduto in quel momento, sarei potuto svenire dalla vergogna per aver mostrato tanto entusiasmo, così dissimile da uno come me.
    Solo il sorriso di Leona riuscì a calmarmi: in breve, riuscii a riacquisire la parola, e potei discorrere come una persona normale, vale a dirsi, rispondendo in maniera semplice e diretta, senza rispondere a una domanda con un'altra; non potevo permettermi di apparire inopportuno, in quel piccolo momento di trionfo.

    Dopo che io e Leona fummo usciti per rinfrescarci da una simile emozione, le varie coppie si prodigarono con un ricco Sir Roger di Coverley, famosa danza dell'ottocento, dando del massimo per essere all'altezza dell'esecuzione che io e Leona avevamo offerto.
    Nel mentre, io e lei eravamo nel salotto attiguo, praticamente soli, visto che tutti gli ospiti erano intenti a scatenarsi; Leona era palesemente senza fiato quanto me, e ci vollero parecchi minuti e svariate tazze di ponce perché riuscissimo a riprenderci del tutto.
    "Davvero niente male, eh?" riuscii a dire tra un sospiro e l'altro; Leona ridacchiò.
    "Sei stato straordinario... hai dimostrato audacia e stile mai visti in un ballerino."
    "Troppi onori" ribattei schernendomi: ero al di là del normale imbarazzo. "
    "Pochi avrebbero potuto danzare come hai fatto tu stanotte: ce ne vuole per sollevarmi in quel modo, sai..."
    "Ma tu non sei così pesante..." cercai di replicare, prima che ella mi posasse un bacio sulla guancia.
    "Dico sul serio..." e con queste parole, si accoccolò al mio fianco come una gattina, posando la testa sulla mia spalla: non nego che mi sentii squagliare dal sentirla così femminile, così stretta a me... cercai di trattenermi, ma non potei fermare me stesso dal cingerle le spalle con il braccio.

    Non so per quanto rimanemmo stretti così, ma dovemmo alzarci quando sentimmo le porte del salone principale spalancarsi: non volevamo farci trovare in quella posizione imbarazzante, e ci mescolammo agli invitati che cominciavano a dileguarsi: era infatti suonata l'undicesima ora, e le persone cominciavano ad allontanarsi, sebbene continuassero a cicalare e chiacchierare e sussurrare fitto fitto, parlando di eventi mondani da preparare da lì a qualche mese... tipico dell'alta società, pensai: non perdono mai una possibilità per divertirsi.
    Sta di fatto che in chiacchiere avrebbero perso un'altra ora o poco più nel giardino: era di fatto una magnifica sera, e sospirava un certo vento, che sembrava preannunciare un insolito piovasco; io e Leona, da parte nostra, cercammo di tenere duro finché gli ospiti non avessero cominciato ad andarsene in massa, onde evitare di fare la figura degli annoiati che non sarebbero mai voluti venire, soprattutto dopo essere stati al centro dell'attenzione di una scena così importante del ballo.
    Non seppi mai come, ma finalmente arrivò l'ora, e gli ospiti cominciarono a lasciare l'ambasciata: io e Leona eravamo tra di loro, ma ci prendemmo la nostra calma, e il Capitano Ferguson e sua moglie fecero a tempo a raggiungerci: naturalmente, ci offrirono personalmente il passaggio fino al motel.
    "La ringrazio sir," risposi alla sua offerta, "ma sarebbe inopportuno."
    "Quisquilie!" tuonò il gioviale ufficiale, una pasqua di sorriso assieme alla consorte. "Siete stato mio ospite d'onore, e ci avete deliziati di una performance a dir poco sublime; credetemi Mist, questo sarebbe il minimo."
    Da buon inglese qual sono ed ero, sapevo che diceva sul serio, e che non avrebbe accettato un rifiuto: sarebbe stato come ferirlo. Quindi, non potei dire di no.
    "Splendido!" tuonò con forza maggiore, come se avesse lanciato un ruggito di trionfo: non lo nego, sobbalzai anche se era di fronte a me. "Faccio venire subito la macchina e partiamo!"
    "Torniamo subito, signor Mist" trillò la soave Jasmine, "voi due non sparite per conto vostro finché non ci siamo, mi raccomando!"
    Come si furono allontanati, io e Leona potemmo lasciarci andare a un sonoro scoppio di risa: eravamo letteralmente al settimo cielo dalla felicità.

    In breve, i coniugi Ferguson giunsero con la loro sfavillante Cadillac, e prima che fossero le due del mattino, eravamo già al motel.


    --------------------------------------------

    "Grazie della splendida serata," ringraziai il Capitano con una solida stretta di mano per lui e un quantomeno elegante baciamano alla sua lady, "è stato davvero memorabile."
    "Vi faccio i miei auguri di buona fortuna, Mist!" rispose l'ufficiale, sereno ma serio. "Domani, vi farò avere i biglietti e con le vostre premure, entro domani sera, sarete in viaggio per Londra."
    "Sentiremo la vostra mancanza" aggiunse Jasmine Ferguson che era sì felice, ma anche commossa. "Prego che un bel giorno ci rivedremo."
    "Sarà senza dubbio un bel giorno" rispose Leona, lasciandosi abbracciare dalla signora Ferguson.
    In quella, sentimmo una folata di vento improvvisa, e i nostri corpi, ancora caldi dal ballo, tremarono, soprattutto le nostre dame, che avevano le braccia scoperte.
    "Oh, santo cielo!" esclamò Jasmine, stropicciandosi le spalle, "fa davvero freddo stasera, non trovi anche tu, caro?"
    "E' soltanto il vento, mia cara." rispose Ferguson, che non si preoccupava minimamente, ma come Jasmine, nemmeno io ero tranquillo: c'era qualcosa di strano in quel vento, come se fosse stato il respiro di una bestia immensa, un drago nero avvolto nel silenzio insondabile della notte, invisibile in ogni sua parte, pronto a saltarci addosso e divorarci; Jasmine lo aveva sentito a sua volta, e i suoi occhi brillavano come quelli di una pantera che senta un pericolo imminente.
    L'immagine nella mia mente era diventata opprimente, impossibile da reggere, e la scacciai dal mio pensiero come potevo.
    "Su, mia cara, ora rientra in macchina e riscaldati." il Capitano sospinse dolcemente la sua sposa nella Cadillac, per tenerla al sicuro dall'aria odiosa della notte. "Bene, sir Mist, signorina Steinhart, ancora una volta, grazie per il vostro intervento. Avete fatto la differenza!"
    "Ancora, troppi onori sir" replicò Leona con un piccolo inchino. "Senza la vostra orchestrazione..."
    "Non datemi meriti che non ho" la fermò lui con un cenno della mano. "La cosa importante, è che abbiamo goduto del tempo più splendido, e che forse non potremo più avere, ma come ha detto lei, signorina, sarà un bel giorno, quello in cui ci rivedremo; prego anch'io, come la mia adorata che quel giorno venga su di noi."
    "Lo spero anch'io" rispose Leona.
    "Lo speriamo tutti noi" aggiunsi anch'io.

    "Bene, ora sarà meglio che vada" si accomiatò il Capitano. "Non voglio far aspettare la mia signora, e siamo tutti stanchi. Vi auguro buona notte e di nuovo buona fortuna. Ci rivedremo domattina così potrò consegnarvi i biglietti."
    "Speriamo che vada tutto bene" mi raccomandai. "Non si preoccupi, Mist!" replicò il vecchio ufficiale, "ho già programmato tutto, ma ora basta con le chiacchiere: buonanotte a tutti e due, non dovrete alzarvi prima di mezzodì, siamo intesi?"
    "Sarà fatto" gli assicurò Leona. "Buonanotte, Capitano."
    "Buonanotte" le feci eco a mia volta.
    "Buonanotte" disse per l'ultima volta James Ferguson, e salito in macchina, diede ordine al suo autista di far partire il motore.
    In breve, svanirono all'orizzonte, e noi due potemmo finalmente entrare nel motel: faceva veramente freddo là fuori... troppo per una notte in piena stagione secca.

    Ci muovemmo in silenzio per non svegliare Ralph, che certamente dormiva profondamente già da un pezzo.
    E non ci sbagliavamo: era nella cucina, seduto sullo sgabello, e addormentato sulla tavola, con parecchie briciole di biscotti sul vassoio vuoto per quattro quinti: si doveva essere annoiato a morte per essersi abbuffato in quella maniera, e si era mangiato tutti quei frollini fino a crollare dal sonno. Povero Ralph, almeno ora stava dormendo tranquillo, e di lì a poco, così avremmo fatto io e Leona.
    In pochi attimi, eravamo in cima alle scale e lì ci separammo con un definitivo 'buonanotte', decisi più che mai a mantenere la parola data a Ferguson: prima di mezzogiorno, nessuno ci avrebbe svegliati.
    Entrato che fui nella mia stanza, non mi spogliai nemmeno: mi tolsi il fiore all'occhiello, i guanti e le scarpe, e caddi come morto sul letto con un sonoro tonfo e un lugubre scricchiolio di protesta da parte delle molle anatomiche.
    In un istante, ero già nel mondo dei sogni, dove mi vedevo vorticare come una trottola, circondato da uomini e bestie saltanti, rivestiti di tuniche e drappi dagli sfavillanti colori: sentii la mia testa vorticare, finché una fiammata improvvisa non travolse la scena, e tutto si fece buio. Ero entrato in pieno rem, ed ero felice.

    Mi parve di aver dormito solo pochi minuti quando un frastuono improvviso e una scossa di inaudita violenza mi strapparono dal sonno.
    In una frazione di secondo, ben consapevole del perché, sentii il mio stomaco attanagliato dalla paura: avevo riconosciuto quel suono, anche se non avevo udito il fischio lungo e lugubre che l'aveva preceduto. Non avevo sentito un boato simile da quando lasciai Londra.

    Era lo scoppio di una bomba.

    TO BE CONTINUED
     
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    Nonostante il bel sole, oggi sono di umore cupo.
    Perfetta condizione mentale per questo capitolo

    E siamo arrivati al punto di svolta tanto atteso.

    Capitolo 24: Mondo in rovina
    Ambasciata di Nairobi
    Sabato, 8 agosto 1998, 10:00


    Un secondo scossone, più forte del primo, mi fece cadere dal letto: il dolore esplose naturale sulla mia schiena, perché ero ancora mezzo addormentato, ma la paura che provavo in quel momento era tale che anche se fossi stato mezzo morto di sonno, sarei stato desto e pronto all'azione.
    In un lampo mi infilai le scarpe, praticamente ruzzolando sul pavimento e in pochi attimi, tra balzelloni e scossoni sempre più violenti, ruzzolai giù per la scala.
    Ralph e Leona erano nel mio stesso stato agitato: presi alla sprovvista, mezzi nudi in cerca di abiti da mettersi in fretta e furia e in breve, saltammo fuori dal motel.

    Lo spettacolo di fronte ai nostri occhi era qualcosa di orrendo e allucinante.
    "Oh... Dio onnipotente!!" fu tutto ciò che Leona riuscì a dire. Io e Ralph, da parte nostra, eravamo paralizzati dall'orrore.
    Il cielo terso di Nairobi, quella mattina, non presentava neanche una nuvola, ma in quel momento, gran parte di quell'azzurro immenso era oscurato da una coltre di fumo nerastra, cenere volatile mista a scintille di fuoco, che si levava in lontananza a est... dalla città di Nairobi.
    Un gemito sfuggì alle mie labbra: corsi come un pazzo nel retro del motel, dove stava l'equipaggiamento: afferrai Luxor e una cintura di coltelli da lancio, mentre Ralph e Leona, arrivati subito dietro di me prendevano le loro armi. Non c'era il benché minimo dubbio: era in corso un attacco in piena regola, e la città era il bersaglio.
    Meethu... Elanor... Ferguson e Jasmina... tremavo al pensiero che gli fosse successo qualcosa. Se fossero morti, non me lo sarei mai perdonato... e tutti i cittadini di Nairobi, poveri innocenti... Sommo Dio, pensai, perché!?

    Gli scoppi continuavano, mentre io e i miei compagni correvamo come bestie feroci lungo la strada; dai campi e dalle colline si alzavano fiamme, e la nube di fumo, mossa a tratti dal vento del conflitto si riversava su di noi, costringendoci a pararci il volto per non asfissiare in quella pestilenza tossica; nella nube di fumo nero, si riconoscevano gli odori del legno bruciato e del sangue.
    Tutta quella morte gratuita... non passavano tre secondi senza che mi sfuggisse un'imprecazione bestiale dalla bocca, unita a gemiti inarticolati... io lo sapevo, lo sapevo che sarebbe accaduto, e sapevo anche chi era il responsabile... non poteva essere altrimenti: chi mai avrebbe attaccato una città così pacifica, se non avesse avuto dalla sua parte il desiderio di trovarmi e vendicarsi di me?
    Non poteva essere che lui...

    "THRIVE!!!"

    Il mio ululato si perse nello scoppio di una nuova bomba, straordinariamente vicina: l'impatto fu tale da scagliarci tutti e tre a terra, perché era caduta a meno di mezza lega di distanza da noi.
    Ruggendo rabbiosamente, mi rialzai menando fendenti alla cieca con Luxor, sperando di colpirlo, anche se ero quasi sicuro che di lui non ci fosse traccia, e che stesse osservando la scena da lontano.
    "Maledizione!! Maledizione!!! MALEDIZIONE!!!!"
    Corsi come se ne andasse della mia vita, puntando alla villa di Ferguson: dovevo assicurarmi che stessero bene, o che almeno fossero ancora tutti vivi!
    Meethu... Eleanor...!!!
    Dovevano essere vivi! Non avrei mai potuto perdonarmi altrimenti!!
    In mezzo al caos infernale scatenato dall'attacco, c'erano automobili ribaltate, persone mezze calcinate che si strascinavano nel fango cercando di salvarsi da quella ressa improvvisa e spietata, mentre altri erano riversi nel fango, morti... tutti morti... ancora una volta, per causa mia!!
    Mi sentii affondare, e sarei crollato su quel momento, se il pensiero dei miei adorati leoni non mi avesse dato la forza di continuare.
    Sta di fatto, che quando arrivammo alla villa, mi sentii mancare: era in fiamme.
    "NO!!!"
    Il grido mi uscì di bocca senza volerlo, e mi slanciai verso il fuoco, solo per essere fermato dalle solide braccia di Ralph.
    "Abraham!! Sei impazzito!?"
    "LASCIAMI ANDARE, RALPH!!! Devo fare qualcosa, DEVO SALVARLI!!!"
    In quella, una figura balzò fuori dalla villa: lo riconobbi subito dalla forma, era Meethu, e tra le zanne, stringeva la mia Murasame; quel pazzo l'aveva recuperata dagli alloggi delle guardie dove l'avevo lasciata, e notai che sulle spalle, aveva Eleanor, mezza svenuta.
    Prontamente, afferrai la giovane leonessa, per la quale ero molto preoccupato: aveva gli occhi sbarrati ed era scossa da singhiozzi; le presi la testa e le assestai un ceffone per farla riprendere.
    "Eleanor, riprenditi!!" le intimai, cercando di farla rinsavire, ma riuscii solo a farla piangere più forte.
    Con un ruggito straordinariamente acuto si svincolò dalla mia presa e fece per saltare verso la villa, quando Meethu la atterrò, cercando di tenerla ferma, ma lei invece si agitava più feroce che mai.

    "Abraham!" mi chiamò Leona, "che cosa facciamo!?"
    Io non risposi, non potevo rispondere: ero paralizzato dall'angoscia, la mia gola era riarsa, come se fosse stata presa in una morsa, e le lacrime trattenute fino ad allora, cominciarono a scorrere.
    Era colpa mia... era tutta colpa mia: Clark Thrive sapeva che ero a Nairobi, e la sua vendetta aveva colpito, condannando centinaia, migliaia di vite... tutto per vendicarsi su di me. L'orrore di vedere quelle case e quelle vite, bruciare, senza un motivo... proprio come a Londra, quando persi ogni cosa, il mio futuro, la mia famiglia, la mia casa e la mia patria... tutto perduto.
    Con un ululato che non ha linguaggio in nessuna lingua umana, caddi, riverso nel fango, continuando a urlare, con strida sempre più acute, fino a sputare bava sanguigna, mentre Eleanor continuava a piangere, a ruggire e a protestare sotto la presa di Meethu.
    In quel preciso momento, un boato immenso, straordinario perforò le nostre orecchie, scagliandoci via di parecchie decine di metri, volammo attraverso l'aria, e dopo un tempo che parve infinito, piombammo pesantemente nel pantano.
    Era come se il tempo si fosse rallentato ai limiti dell'essere completamente fermo: non sentivo più niente, ogni cosa era sfocata attraverso il velo delle lacrime, il mio corpo era tutto intorpidito, e ogni cosa era perduta. Rialzandomi, vidi che la villa era esplosa, e mentre il mio udito cominciava a tornare, udii il terrible gemito di Eleanor, l'immenso rifiuto di credere che fosse accaduto: la vidi balzare, libera dalla presa del giovane leone, verso i resti della casa, e barcollando, corsi dietro di lei.
    Non potei fare niente se non restare a guardarla frugare tra quei rottami incandescenti, rischiando di bruciarsi: era scarmigliata, sporca, con una ferita in fronte e piena di lividi, ma continuava a cercare dappertutto, finché non la sentii lanciare un gemito di dolore: accorsi, e la vidi accasciata su quelli che erano indubbiamente due corpi abbracciati e carbonizzati nell'esplosione. Come fui giunto, non potei trattenere un grido d'orrore: quei corpi, quei volti... non avevano più forma umana, ma come non riconoscerli?


    --------------------------------------------

    Era troppo pesante da sopportare.
    Caddi in ginocchio, e lanciai un nuovo, più terribile lamento verso il cielo, artigliandomi la testa a piene mani, i palmi mi paravano gli occhi, perché non volevo guardare oltre, e stavo per accasciarmi, quando due forti braccia, che riconobbi come quelle di Leona, mi afferrarono e mi sollevarono: pur essendo una donna, aveva muscoli a sufficienza per portarmi in braccio.
    Non riuscivo a sentire cosa lei e Ralph si stessero dicendo, ma sentivo dolore e rabbia nelle loro voci.
    Non seppi mai per quanto tempo corsero, ma quando finalmente mi poggiò a terra, riconobbi il soffice cuoio del sedile di una macchina, e mentre Ralph accendeva il motore, portandoci via da quello scempio orribile, scivolai nel sonno, troppo stanco anche solo per pensare.

    Quando finalmente riuscii a riprendermi, non so come, mi alzai a sedere, domandandomi se quello che era avvenuto fosse stato soltanto un orrendo incubo... ma il dolore che sentii su tutto il mio corpo quando provai ad alzarmi, fu la prova concreta che non avevo sognato.
    Guardandomi intorno, vidi che eravamo sulle colline, nel bel mezzo del niente, a più di cinquecento miglia da Nairobi, e a giudicare dalla posizione del sole, era ormai sera, e presto avrebbe fatto buio; Eleanor era raggomitolata a terra, tremante come una foglia, e piangeva come un cucciolo ferito, mentre Meethu la stringeva a sé, facendole scudo con il suo corpo, lambendole dolcemente la testa per calmarla... ma neanche tutte le cure del mondo avrebbero sanato la ferita inferta al mondo in quel giorno.
    In pochi attimi, Nairobi era stata distrutta, e innumerevoli vite erano andate perdute... e la colpa era soltanto mia, mia!!
    Stavo per giurare imprecando, che Clark Thrive avrebbe pagato anche per questo, ma il dolore psicofisico che provavo mi impediva di arrabbiarmi, e svenni di nuovo.
    Per quanto Ralph e Leona cercassero di tirarmi su il morale, anche loro erano sconvolti, tristi e arrabbiati quanto me, e Meethu mi guardava con occhi impotenti, mentre Eleanor, scioccata com'era per aver perso l'unica famiglia che avesse mai avuto, si rifiutava di muoversi.
    Mi dissero che, tra le cose recuperate nella fuga, oltre alle nostre armi, erano riusciti a salvare il mio kit di pronto soccorso e viveri a sufficienza per tre mesi... ma non avevamo abiti di ricambio tranne le canottiere e i pantaloni indossati dai due soldati e lo smoking mezzo bruciacchiato che avevo io, e come se non bastasse... il mio zaino e il mio anello erano spariti.
    Quest'ultima informazione in particolare, mi addolorò enormemente, perché senza di esso, non potevo più comprendere il linguaggio animale, e Meethu sarebbe stato muto e incomprensibile per me.
    Ero così giù di morale, che non riuscii a spiccicare parola, e non riuscii a mandare giù un singolo boccone quella sera, e sarebbe andata avanti così per tre giorni di fila.

    TO BE CONTINUED


    Edited by Gaoh - 11/7/2016, 00:23
     
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    Oggi è una bella giornata, e sono di umore adatto per scrivere.
    Con questo capitolo si conclude la prima parte di questa FF.

    Capitolo 25: Cuori in risonanza
    Giungla ignota
    Giovedì, 27 agosto 1998, 15:30


    Quasi due settimane passarono, dodici giorni da quell'insensata tragedia, quasi trecento ore passate a bollire nella mia rabbia repressa.
    Mi ci sarebbe voluta una settimana prima di tornare a cacciare, e non perché avessi voglia di sfogarmi, ma perché la fame cominciava a farsi sentire: prima Ralph, grande e grosso come era, continuava a definirsi in fase di crescita e aveva bisogno di molto nutrimento, poi Leona, che cominciava ad apparire sfibrata e stanca, e poi, fatalmente, la fame divenne insopportabile anche per me.
    Poiché ero stanco, mi ci volle più tempo del previsto, e solo dopo dieci estenuanti ore, riuscii a catturare qualche bizzarro uccello selvatico e un lemure dall'aspetto striminzito: non era un granché, ma era tutto ciò che avevamo; per nostra buona fortuna, Meethu stesso era andato a cacciare, ed era tornato con un piccolo facocero dall'aspetto succulento. Grazie alle conoscenze di Leona, con l'aiuto della mia ascia come strumento di macelleria prima, e come padella dopo, riuscimmo a cuocere la carne. Naturalmente, mi prodigai di consumare io stesso il lemure, visto che nessuno dei miei amici - a parte i leoni - l'avrebbe toccato, e io lo sapevo bene.
    Naturalmente, ci inoltrammo sempre più nella giungla in cui eravamo arrivati, e per far perdere le nostre tracce, mi assicuravo personalmente di seppellire le ossa dei nostri pasti e far sparire tutti i segnali del nostro passaggio, per quanto ciò fosse praticamente impossibile, poiché ogni fuggiasco si tradisce in un modo, o con un segno visibile, o con un suono, o con un odore.
    La cosa che mi preoccupò di più quel giorno però, fu Eleanor: era orrendamente depressa, ancora non riusciva a capacitarsi dell'aver perso l'unica casa che avesse mai conosciuto, e che i suoi padroni, le creature più simili a una famiglia avesse mai avuto, non ci fossero più; stesso dicasi per il vecchio segugio che lei chiamava nonno, e che, sicuramente, era perito nell'esplosione che aveva squarciato la vecchia villa, così ricca di storia e di eventi; tutta Nairobi era piegata al suolo, sotto la crudeltà di quell'uomo mille volte maledetto.
    Azzannai con forza la schiena abbrustolita del lemure per sfogare la mia collera: mi sentivo così straordinariamente impotente, ma non potevo permettere alla mia rabbia di dominarmi, o avrei rischiato di commettere una follia senza precedenti.

    Poiché avevo perso il mio anello, non potevo più comunicare con i miei leoni, ma li conoscevo abbastanza da capire cosa volessero dal modo in cui si esprimevano con effusioni e colpi delle loro zampe; Meethu aveva cercato continuamente di convincere Eleanor a mangiare, ma lei si era sempre opposta, e con il tempo, in quelle due settimane, si era inselvatichita a un buon livello: capitava spesso che scacciasse Meethu dalla sua presenza con una reazione violenta, tanto che io e i ragazzi dovevamo trattenerla perché non schiacciasse Meethu con la sua veemenza, e più di una volta la sentii lanciare dei veri ruggiti, così diversi dai graziosi miagolii che emetteva quando viveva a villa Ferguson; povera cara, era completamente sconvolta.
    Tuttavia, dopo dieci giorni anche lei dovette mangiare, spinta com'era dalla fame, e divorò quasi per intero un okapi solitario che vagolava dalle nostre parti, e con una foga difficile da descrivere.
    Ma il sentimento che si sentiva più chiaramente da lei era il dolore: non solo il mondo che lei conosceva era andato perduto, ma anche il fatto che si stava lentamente trasformando in una vera belva, doveva essere di un peso opprimente per lei, e ogni notte, la sentivo piangere e gridare, anche con Meethu che si sdraiava su di lei per farle da scudo e conforto.
    Quei giorni, cupi e oscuri si fecero sentire come lunghi e gravosi, e quasi nessuno di noi, salvo sporadiche volte all'ora della caccia, dei pasti e al momento di dedicarsi al riposo notturno, spiccicò sillaba per tutto il tempo.


    --------------------------------------------

    E così, si arrivò a quel fatidico giorno: doveva essere il ventisette, o comunque uno degli ultimi giorni di agosto; la stagione delle piogge era vicina, e da come soffiava il vento, lo si capiva: camminando per poche ore al giorno, in quei venti giorni ci eravamo inoltrati di oltre sedici miglia nel cuore della giungla, e poiché era calata la nebbia su di noi, decidemmo di osservare un giorno di riposo.
    Ralph, ovviamente, si dedicò completamente al suo sport preferito, ora diventato una necessità: contare il numero di russate che sarebbe riuscito a godersi prima di doversi svegliare di nuovo, con suo grande rammarico e dispetto: non aveva più avuto modo di radersi, e ormai la sua barba gli copriva quasi tutto il collo da quanto si era allungata, e i suoi capelli erano lunghi tanto da ricadere sulle sue possenti spalle; russava così fragorosamente che nemmeno una cannonata lo avrebbe svegliato.
    Da parte mia, volevo starmene da solo per riflettere e riordinare le idee: c'erano così tanti pensieri che mi turbinavano nel cranio, da non capire come diavolo facessi a guardare dove andavo, e avevo bisogno di rinfrescarmi, visto che le nostre scorte d'acqua erano agli sgoccioli.
    Fortunatamente, la sera prima, avevo sentito uno scroscio lontano ma familiare, e spinto dalla forza di volontà, decisi di andare a investigare quella mattina; Leona avrebbe voluto accompagnarmi, ma io le negai quel desiderio.
    "Siete stanchi e assetati, e qualcuno deve vegliare su Ralph che non può difendersi in questo momento; non si sveglierebbe nemmeno se venisse sbranato. Appena troverò dell'acqua, tornerò a chiamarvi, promesso."
    E con quelle parole, mi inoltrai nella nebbia mattutina, mio unico terrore.

    Il mio udito si era fatto straordinariamente buono, grazie a quasi quindici anni di vita passata a cacciare e a sviluppare tutti i miei sensi per sopravvivere; poiché la nebbia non mi permetteva di usare il mio occhio e la sua ottima portata, rischiavo di non trovare più la via del ritorno, e perciò usavo Luxor, ormai abbassata da arma di vendetta a bastone di sopravvivenza per segnare un sentiero in forma di solco sulla terra arida o spezzare i rametti, per creare una pista con cui orientarmi.
    Mi dovetti ritenere molto fortunato: dopo una lenta passeggiata di circa un'ora, riuscii a trovare quello che stavo cercando, e fui lieto di non essermi ingannato. Una possente cascata della vertiginosa altezza di settecento piedi o giù di li, zampillava dall'altissima parete, segno evidente che ci trovavamo in una gola e che al di sopra delle nostre teste si estendeva la terra desolata e inesplorata; sorrisi consapevole che quel posto era un nascondiglio perfetto, e con la scorta d'acqua a nostra disposizione, avremmo potuto resistere per giorni e giorni... ma a quel punto, per quanto avrebbe retto la mia collera?
    Non potevo ignorare ciò che era accaduto a Nairobi, e fintanto che Clark Thrive - che, io sapevo, intuivo per certo, era responsabile di quella atrocità - fosse stato in libertà, nessun luogo sulla terra avrebbe potuto nascondermi per sempre da lui: dovevo affrontarlo, e più ci pensavo, più la mia frustrazione, il mio senso di giustizia e la mia collera aumentavano.
    Dovevo sbollire.
    Tuffai inconsapevolmente la testa nel fiume che si formava ai piedi della cascata, e inconsciamente, inghiottii più acqua di quanto avessi in mente - un po' di quella finì anche nel mio naso - e per poco non mi strozzai da solo: caddi al suolo, tossendo e sputando, improvvisamente svegliato da quella scarica di protesta da parte del mio corpo, e in quel momento, il dolore mi trafisse: piansi, piansi nell'ombra, senza sapere se per la tristezza o per qualche altro motivo a me ignoto; so solo che rimasi là fino alle ombre del tramonto.

    Le stelle cominciavano a brillare sopra di me, ma il sole, a giudicare dalle ombre che vedevo nel cielo sopra di me, non era ancora calato; ebbi una qualche consolazione a guardare quel cielo: non avevo più guardato le stelle dalla notte prima del mio esilio dalla Rupe dei Re, e fui preso dal desiderio di rivedere quelle contrade meravigliose, se solo non avessi saputo che Clark Thrive sarebbe stato capace di trovarmi anche lì, e allora... oh sommo Dio, non volli neanche pensarci. Non avrei mai potuto perdonarmelo.

    In quel momento, uno scricchiolio sinistro dai cespugli giunse al mio orecchio.
    Il mio primo istinto fu quello di alzarmi e balzare via per nascondermi, e così feci: saltai nella direzione opposta all'origine di quel suono e mi misi dietro un tamarindo dal grosso tronco e mi rannicchiai a spiare.
    Il mio timore si mutò in sorpresa quando vidi un leone giungere alla fonte: era Meethu, ma con lui c'era anche Eleanor, che lo seguiva con aria sospetta; forse si era finalmente ripresa dall'orribile angoscia? L'avesse voluto il cielo, questo pensai; i due si accostarono al fiume per bere, e per un po', sembrava tutto normale.
    Per questo fui colto da una sorpresa improvvisa, quando Meethu si posizionò dietro a Eleanor, e con un balzò la sorvolò, finendo diritto nel fiume. Per poco non mi sfuggì un grido dalla bocca: era impazzito!?
    Tuttavia, il mio buon leone stava bene, e quando Eleanor si affacciò al fiume per vedere se stava bene, lui saltò fuori come un coccodrillo, la afferrò per le spalle e la trascinò in acqua; la reazione fu qualcosa di esilarante, perché Eleanor balzò fuori con uno strillo acutissimo, tremando come una foglia, seguita da Meethu, e i due cominciarono a giocare alla lotta, rincorrendosi e atterrandosi a vicenda; con una forza incredibile, i due corsero su per il fianco della parete di pietra, seguendo una specie di scalinata naturale che sembrava portare diritto in cima.
    Naturalmente, non mi azzardai a seguirli, ma volevo vedere, e perciò mi arrampicai sul tronco del tamarindo, che era straordinariamente alto, e balzando da un ramo all'altro, arrivai in cima, ma quei due continuavano a salire, passando per le piccole caverne erose dietro la cascata, che formavano con effetto fantastico dei magnifici rientri, dentro ai quali chiunque avrebbe potuto nascondersi.
    Saltai sul ramo più vicino di un albero dappresso e continuai a salire con loro, mentre i due giungevano in cima a un alto picco di pietra, abbastanza largo da ricordare la cima della Rupe dei Re, e li vidi giacere sulla dura pietra, teneramente abbracciati, mentre le ultime luci del tramonto scendevano su di loro, dando spazio alla notte.

    Il mio cuore tremò di felicità per la prima volta dalla notte del ballo: finalmente era avvenuto, e in silenzio, lanciai su di loro la mia benedizione, come se fossi stato un prete, giammai degno di compiere tale uffizio.
    "Io vi dichiaro... marito e moglie."
    Radunai in me le ultime scintille della mia magia per sentire le loro voci, ma tutto ciò che sentii era di nuovo quel canto meraviglioso che apparteneva al mondo, apparteneva a loro, amanti nella natura di un mondo selvaggio e libero, seppure segnato da morte e orrore, e che presto avrebbe dovuto incontrare la fine per rinascere a una nuova vita, una vita degna del loro amore.
    Lasciai così, che tutto svanisse nella notte del loro legame, e che le lacrime scorressero libere, nel silenzio del mio dolore; e come il mio pianto piovve sulla foresta quel giorno, piovvero anche le stelle commosse da quel sommo istante, in cui sbocciò nella sua forma più pura, l'amore tra Eleanor e Meethu, finalmente uniti

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    FINE DELLA PARTE PRIMA

     
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    E la storia prosegue con la seconda parte. Come al solito, l'enumerazione dei capitoli non riparte da 1 ma continua normale, fino a sessanta, ma quello sarà nella terza parte.

    PARTE SECONDA: I GIORNI DEL PIANTO



    Capitolo 26: Natura selvaggia
    Giungla ignota
    Domenica, 11 aprile 1999, 11:00


    Come dice il proverbio, 'd'Aprile piove per gli uomini, e di maggio per le bestie' ma se non fosse stato per quella cascata, né io, né Ralph o Leona, né tantomeno i miei leoni sarebbero sopravvissuti senza acqua, perché in quei mesi atroci non piovve quasi mai su quella foresta, e quindi, la cascata era la nostra unica fonte di sostentamento, esclusa la caccia, e la sola risorsa idrica a nostra disposizione.
    Il mese di agosto fu lungo e atroce, soprattutto per Eleanor che non era avvezza a stare a così stretto contatto con la natura selvaggia, cui lei apparteneva di diritto, ma già agli inizi di settembre, dimostrava i primi segni di adattamento: de facto, Meethu le aveva insegnato tutto ciò che aveva imparato da me, sull'arte della caccia - io lo so bene - perché da quella sera che li avevo visti unirsi nella carne, li avevo tenuti costantemente sotto controllo per assicurarmi che non si mettessero nei guai - e prima che quell'anno volgesse al termine, era diventata una cacciatrice quasi perfetta: le anziane della Rupe dei Re sarebbero state fiere di lei. Aveva solo la cupa tendenza di sbranare quasi per intero la propria preda, senza condividerla: era evidentemente diventata più selvatica del solito, o probabilmente, era solo stress per la perdita dei suoi adorati padroni; intuivo che ci sarebbe voluto ancora molto tempo prima che riuscisse ad adattarsi completamente e maturare del tutto.
    Meethu era sempre comprensivo con lei, e non la lasciava quasi mai da sola, a parte durante le battute di caccia in cui si separavano dopo poche effusioni rassicuranti, e ogni notte, li vedevo sparire insieme dietro alle cascate, dove andavano a rintanarsi per trovare conforto l'una nelle zampe dell'altro.
    Sapevo già che senza il mio anello non potevo comunicare più con lui, ma anche se l'avessi avuto, non avrei potuto comunque, perché stando sempre insieme alla sua compagna, bruciante nella fiamma del loro amore, Meethu cominciò a passare sempre meno tempo con me; certo, ogni sera, prima del cader della notte, veniva al piccolo avamposto che io e i miei compagni avevamo organizzato ai piedi della cascata, a farsi accarezzare, sperando di trasmettere qualche messaggio di conforto, ma purtroppo, senza la magia dell'anello, senza il Dono Universale delle Lingue, era un leone come quelli dei documentari... praticamente impossibile da decifrare.

    In quanto ai miei compagni, per quanto provati si erano adattati: Ralph aveva un aspetto più selvaggio che mai, indossava solo la canottiera, i jeans dall'orlo rovinato e le sue scarpe da ginnastica, tutte coperte di fango; i muscoli delle braccia e del petto erano ricoperti di pelo, la sua barba si era sviluppata notevolmente, coprendogli mento e guance, e i suoi capelli si erano allungati fino alle scapole, ed erano tutti arruffati: questo immenso ammasso di peluria lo aveva reso spaventosamente selvaggio a vedersi, dandogli le fattezze truci e bestiali di un terribile orso bruno, e sebbene la vita selvaggia lo avesse reso più rozzo che mai, aveva fortunatamente conservata la sua umanità.
    Leona, di per sé, era rimasta la stessa, seria ma gentile quando poteva, e anche lei portava abiti sfatti a causa della rocambolesca precipitosità della nostra fuga: indossava dei pantaloncini corti e stivali lunghi fino al ginocchio, una maglietta nera tutta sporca e un guanto da scafista con le nocche di ferro alla mano sinistra; i suoi capelli violacei, di norma raccolti a coda di cavallo, ora erano sciolti, e si erano allungati fino alle natiche, tanto che doveva scostarli come una mantella ogni volta che si sedeva su una qualche roccia piatta e glabra, rozzo sostituto di una vera sedia.
    Le nostre armi, recuperate dalla fuga consistevano in quanto segue.
    Per me, erano rimaste Murasame, la mia fedele spada, e Kaminari, la lama che fu della mia perfida maestra, Mizuki Shinoyama, conservata ma mai adoperata da quando ella morente, me la affidò; per me, avevo preso anche Luxor, l'arma della mia vendetta, un paio di coltelli dalla lama seghettata e una nove millimetri in caso di necessità; inoltre, avevo ancora la mia ascia - ormai declassata a padella di sopravvivenza - e il mio arco, scampati per miracolo alla distruzione di Nairobi. Il mio sangue bolliva di rabbia, al ricordo di quella strage insensata, e giurai ancora una volta a me stesso che l'avrei fatta pagare cara al responsabile.
    Sì: alla fine, Clark Thrive avrebbe pagato per tutto.
    Ralph aveva ancora le sue due pistole, Dagger e Boralith, modificate per essere delle vere pistole d'assalto, fin da quando militava nell'esercito statunitense, ma ora aveva anche la sua mazza chiodata e il suo scudo, da lui appropriatamente battezzati Bane e Lionel rispettivamente, e da quando eravamo arrivati alla giungla, aveva usato ogni istante del suo tempo libero per migliorarsi nel loro utilizzo; i risultati sul suo fisico si facevano vedere, da quanto imponente era diventata la sua muscolatura.
    Leona aveva ancora le sue mitragliette UZI, ma il suo kris dalla lama ondulata era andato perduto - un caro ricordo dato che, stando a quanto sapeva lei, i soldati del Pentagono lo avevano trovato su di lei, il giorno in cui ella venne ritrovata sulla strada; il suo spadone - da lei chiamato Beatrix - pendeva appeso alla sua robusta schiena a mezzo di uno spesso laccio di cuoio che portava a tracolla, con un gancio a cui appendere l'elsa, lasciando così la spada senza fodero; il tutto le dava un'aria molto battagliera.

    A ogni giorno, esploravamo sempre più a fondo la zona in cui ci trovavamo, affidandoci alla linea del fiume e conquistando la giungla un pezzo alla volta, senza mai scordare la via del ritorno, consapevoli che non potevamo muovere la jeep, ormai priva di carburante, e che chiunque l'avesse trovata, avrebbe potuto rintracciare la nostra pista in quella selva: per questo, dovevamo mettere la maggiore distanza possibile tra noi e chiunque ci stesse alle costole... e con chiunque, potevamo intendere soltanto lui, l'orrore della mia esistenza, il flagello della nostra vita...
    Clark Thrive.


    --------------------------------------------

    Un anno intero volse al termine, in Europa giunsero l'autunno e l'inverno, ognuno fece il proprio corso, e finalmente, tornò la primavera, e nel mentre, la stagione delle piogge si fece sentire: finalmente, l'acqua zampillò dal cielo con grande veemenza, tanto che dovemmo ripararci più e più volte sotto i tamarindi e gli immensi alberi contorti della giungla, immersi nella foschia e nel freddo innaturale di quella umidità sconfinata; capitò più e più volte che ci ammalassimo di raffreddori in quel primo periodo dell'anno, l'ultimo anno del millennio.
    Io compii il mio ventiquattresimo anno e Ralph il ventottesimo, mentre Leona aveva compiuto il ventisettesimo a ottobre, e allo stesso modo, con il passare delle lune, o mesi che dir si voglia, Meethu maturò del tutto, ormai aveva praticamente quattro anni, ed era più virile di qualsiasi leone avessi mai incontrato.
    Era passato già un anno intero, ricordai, da quando li avevo ritrovati in quelle terre lontane e meravigliose che erano le Terre del Branco: allora non potevamo sapere che saremmo finiti in un viaggio simile, e in quel tempo, non potevamo lontanamente immaginare ciò che ci aspettava di li a pochi giorni.
    Ma il tempo è buon capitano che marcia in avanti e non si guarda mai indietro, e il mondo lo segue per questo: il tempo scorre come il fiume corre verso l'oceano, e il ciclo delle acque, come il ciclo della vita ripete all'infinito il suo corso.
    Poiché nella morte si nasconde la vita, e nell'oscurità più profonda si trova la luce, o così avevo sentito dire... in quel momento, la mia collera verso Thrive era sotto controllo, ma se mai mi fosse apparso di fronte, come... come avrei reagito? Tremavo nel sapere la risposta; temevo più di ogni altra cosa di perdere tutto ciò che avevo per colpa della mia ostinazione e del mio desiderio di vendetta contro quell'uomo... non sapevo che cosa sarebbe accaduto in futuro, ma sapevo che i miei amici non mi avrebbero lasciato, nonostante le mie suppliche e le mie proteste.
    Anche loro, lo capivo bene, soffrivano, e se io non fossi stato io, o se non avessero avuto anche loro un conto in sospeso con quell'essere malvagio, mi avrebbero abbandonato al mio destino alla prima occasione... chiunque altro l'avrebbe fatto.
    Ma non loro, loro rimasero, perché erano i miei amici, si sentivano in obbligo verso di me e la mia missione, e per questo rimasero al mio fianco, fino alla fine, nel bene e nel male.

    TO BE CONTINUED
     
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    Prosegue la storia...

    Capitolo 27: Bisogno
    Giungla ignota
    Sabato, 1 giugno 1999, 08:00


    I giorni passarono lenti e inesorabili, come coltelli che vengono affilati con calma e pazienza sulla dura cote, ma la cote era la nostra pelle, e nonostante i nostri successi a caccia fossero più che favorevoli, la maggior parte delle volte, capitò che dovessimo razionarci le scorte, poiché non c'era modo alcuno di sapere se saremmo riusciti a catturare nuove prede, anche con l'aiuto dei nostri leoni: immersi com'erano nel loro amore, passavano raramente qualche momento separati; Meethu aveva smesso di andare a caccia tutti i giorni per stare a fianco della sua compagna, e a nulla valevano le mie preghiere per farlo tornare a cacciare; si limitava a farsi accarezzare e a effondersi in effusioni sulle mie mani per pochi minuti, e lo stesso valeva per Eleanor, che sembrava straordinariamente stanca, e la cosa mi pareva piuttosto strana: erano passati già parecchi mesi dalla sua prima esperienza di accoppiamento con Meethu, e di certo, lui non era stato affatto brutale nell'approccio, sebbene fosse stata la prima volta anche per lui.
    Rimasi sinceramente sorpreso, e preso da un certo sospetto, provai a carezzarle il ventre: non sentii nulla di insolito, a parte il fatto che fosse leggermente aumentata di peso... probabilmente uno sfogo di fame nervosa, pensai, tutto dovuto al fatto che si stesse adattando alla vita nella natura selvaggia, finalmente libera dai lacci della vita domestica.
    L'ultima volta che l'avevo vista fuori dalla caverna, era mentre correva dietro ad alcune lepri selvatiche, e correva tanto veloce che lo stesso Meethu aveva difficoltà a starle dietro: in così poco tempo, così maturata. Le carezzai il muso, e la sentii ronfare serenamente, mentre strofinava la fronte contro il mio palmo; rimpiansi terribilmente che il mio anello fosse andato perduto, poiché senza di esso non potevo più parlare con loro, e il solo modo rimasto loro per comunicare con me, erano le loro carezze e le loro moine affettuose. In quel momento, giurai che avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per restituirli alle Terre del Branco, qualora ogni cosa fosse finita in quella mia guerra.

    Ma il nostro problema attuale era assai più grande: il fatto è, cari posteri, capite, che nonostante i nostri successi, a ogni caccia consumavamo proiettili, e anche con le mie frecce, sapientemente recuperate, non avevamo mezzi per riutilizzare i proiettili una volta consumati, e le mie frecce da sole, seppur aiutate sporadicamente dai nostri leoni, non bastavano per tutti: bisognava recuperare proiettili e possibilmente viveri per il nostro viaggio, considerando anche che avanzavamo alla cieca, e non avevamo alcuna idea di dove stessimo andando.
    Ma l'idea di dover saccheggiare e rubare per sopravvivere mi faceva orrore: ridurmi al pari di un avvoltoio, di un necrofago, era l'ultima cosa che volevo fare, ne andava del mio onore di britannico, e già quando Ralph e Leona cominciarono a espormi il problema, mi rifiutai categoricamente, per quanto i morsi della fame cominciassero a farsi sentire.
    Non mi sarei abbassato a tanto: oltretutto, in quei giorni sentivo un costante mal di testa e parecchi dolori alle braccia e alle gambe, e capitava spesso che non dormissi la notte, e ciò non contribuiva in bene alla mia sofferenza.


    --------------------------------------------

    E così, lentamente, passarono venti lunghi giorni., lunghi e laceranti particolarmente per me, e fatalmente, il corpo ebbe ragione della mente; in sintesi, arrivammo al punto che anch'io non potei più reggere: non avevamo più cibo, i leoni erano inquieti e Ralph e Leona erano perennemente cupi in viso, al punto che quasi non mi rivolgevano la parola.
    Insomma, non se ne poteva più.
    Quella mattina presto, mi alzai e seguii il corso del fiume, financo a raggiungere una nuova alta parete di quella profonda gola in cui avevamo preso dimora. Non so come, se per disperazione o per pura forza di volontà, riuscii a issarmi financo alla sommità, seppur con qualche difficoltà, e rischiando più di una volta di precipitare e di fracassarmi ogni singolo osso in corpo: non riuscii comunque ad arrivarci in meno di una ora.
    Sta di fatto, che dalla cima di quella rupe, godetti di una vista eccelsa, sebbene il sole per poco non mi abbagliò, rischiando di farmi cadere di sotto.
    Da lassù, potei vedere del fumo distante meno di quattro miglia: senza dubbio, si trattava di un villaggio o di un avamposto, e a quanto pare in piena attività.
    Mi prese un groppo in gola alla prospettiva di ciò che avevo di fronte: la nostra sola speranza di ottenere viveri e armi era eseguire un'incursione sul fortino, con la possibilità - ahimè, elevatissima - di venire ammazzati, e qualora avessimo avuto successo, di trucidare dozzine di innocenti che forse abitavano laggiù.

    Mi ci volle qualche minuto per riprendermi: l'idea non mi piaceva, e dovevo prima parlamentare con Ralph e Leona. Cercando di fare il prima possibile, mi calai giù dalla rupe, e corsi come un cavallo fino all'accampamento, ove giunsi praticamente senza fiato.
    La notizia fu accolta con selvaggio entusiasmo dai miei due compagni: Ralph era già pronto a balzare, e dovetti trattenerlo; per un secondo temetti che avesse perso il senno.
    Dovetti rammentargli, con durezza di parole che noi eravamo umani e non bestie. Leona stessa mi aiutò a placare l'inselvatichito Yankee, e messo a tacere il suo ardimento esplosivo, ci sedemmo a pianificare, perché attaccare un forte, richiede un piano preciso e conciso, soprattutto se c'è la prospettiva di affrontare molti nemici, in inferiorità numerica com'eravamo.
    "Bisogna dapprima studiare il territorio e il perimetro" dichiarò Leona con il suo tipico stile di comandante e stratega, ma non l'avevo mai vista così infervorata nel pianificare: temevo che la natura selvaggia si fosse impossessata anche di lei.
    "E poi li attacchiamo con Meethu e Eleanor e li distruggiamo!!" tuonò trionfante Ralph.
    "Calma il tuo istinto bestiale, Raphael!" lo ripresi all'istante. "Non sappiamo quali e quanti nemici ci siano in quel forte, o se sia un vero forte: potrebbe anche trattarsi di un villaggio. Bisogna innanzitutto fare come ha detto Leona e ispezionare il territorio. In quanto ai leoni," continuai, preoccupato per quanto aveva detto Ralph, "non credo che ci aiuteranno: Eleanor si comporta in modo strano, e sono già molti giorni che non esce dalla caverna, e Meethu non lascerebbe mai sola la sua compagna."
    "Ha ragione, Ralph," mormorò Leona, preoccupata quanto me per la giovane leonessa. "Se vogliamo il loro aiuto, dobbiamo assicurarci che loro siano disposti a darcelo."
    "E senza l'anello magico, non possiamo sapere..." Ralph era costernato, ma la ragione cominciava a tornargli, rendendolo di nuovo quantomeno umano.
    "Allora, agiremo con estrema prudenza..." ripresi. "Non dobbiamo tralasciare il benché minimo dettaglio: perimetro, numero e qualità di nemici, bilancio tra guadagno e perdite - da mantenere nulle, naturalmente - e poi studiare il piano più congegnale per sferrare l'attacco diretto."
    "Proprio come a Praga!" esclamò Ralph, ringhiando come una belva.
    "Ralph!!" lo richiamò Leona, consapevole di quale effetto avesse quel nome su di me: subito lui si rese conto dell'errore e stava per chiedermi scusa, se non avesse visto come io fissassi attentamente il fuoco del falò, perché vi vedevo bruciare il mio nemico, e il mio solo desiderio in quel momento, era sopravvivere per vedere quella visione concretizzarsi di fronte ai miei occhi.
    "Esattamente, Ralph: proprio come a Praga."

    E così, fu stabilito di agire al sorgere del secondo sole, dopo un giorno di riposo: come veri predatori, avremmo colpito senza clamore, e avremmo preso ogni cosa.
    Per la prima volta dopo tre giorni, quella notte mi addormentai e allo stesso tempo rimasi vigile, cosciente di quello che ci attendeva: non era la prima volta che uccidevo, e anche se si trattava di semplici villici, nessun umano è innocente. Forse, li avremmo liberati da una misera esistenza, ma non potevo sapere... io non sono un Dio, e comunque fosse andata a finire, la Legge era una sola.
    Il forte vedrà il prossimo sole, e gli altri, a Dio piacendo, non vedranno tramontare il loro ultimo giorno.

    TO BE CONTINUED


    Attendo - in vano - i vostri commenti.

    Edited by Gaoh - 11/7/2016, 00:33
     
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    Capitolo 28: Oltre il fumo
    Zona devastata
    Lunedì, 3 giugno 1999, 10:00


    In quel giorno di riposo, le nostre menti non si erano placate: inutile anche dirlo, affamati e disperati come eravamo; Meethu aveva fortunatamente catturato qualcosa quella sera prima, ma Eleanor sembrava così stanca in quegli ultimi giorni, e il cibo andava quasi interamente a lei.
    Quindi, per quanto mi fossi sforzato, restando sveglio per quasi tutta la notte, nel tentativo di trovare una strada alternativa, non riuscii a ideare nulla di astratto, figurarsi, qualcosa di concreto.
    Il sole quel mattino, sorse con una presenza quasi innaturale, perché si era alzata una fitta nebbia nella gola, una nebbia che si era levata al di sopra degli alti alberi, e come una colonna di vapori e nuvole, si alzava dalla gola come se vi fosse un incendio; il terrore antico che provavo verso la nebbia e le sue insidie, mi rendeva inquieto, e se non avessi avuto Ralph e Leona al mio fianco, sarei fuggito di sicuro.
    Con mia immensa sorpresa, notai che la notte aveva placato i loro istinti più bassi, ed erano tornati straordinariamente umani: Ralph stesso, che la sera prima era deciso più che mai a fiondarsi come una belva su qualsiasi cosa ci aspettasse e sbranare come una belva, mi chiese scusa per il suo atteggiamento, e mi disse anche che l'idea in sé non gli piaceva per niente; non aveva mai ucciso altri uomini per mangiare, ma solo perché erano nemici, divisi dagli ideali, e Leona era stata resa al silenzio dalla comprensione di quanto fossero andati vicini a trasformarsi in bestie dalla disperazione.

    Sta di fatto che, una volta mangiate le ultime scorte di gallette rimaste per darci se non le forze che minacciavano di mancare, almeno un po' di coraggio, prendemmo le nostre armi in pugno, e silenziosamente, ci incamminammo nella nebbia, scura come non mai per la poca luce che scendeva su di noi.
    Camminavamo in silenzio, formando con le nostre mani una catena per non disperderci, e scivolando lentamente nel putrido fango della giungla, muovemmo verso nordovest, laddove io avevo avvistato la colonna di fumo.
    Con il passare delle tre ore che ci mettemmo per arrivare, il sole fece il suo corso verso lo zenit, e la terra riscaldata, dissipò la nebbia, permettendoci di vedere e di accelerare il passo, senza tuttavia separarci: non sapevamo a cosa andavamo incontro. Quella, fu la nostra ora più disperata.


    --------------------------------------------

    Doveva essere già mezzogiorno passato, e avevamo percorso parecchia strada - poiché camminavamo a passo spedito - quando i nostri nasi riconobbero istintivamente la puzza inconfondibile del fumo: un incendio. Cosa mai era avvenuto?
    Sciogliendo improvvisamente le nostre mani, balzammo come bestie, e corremmo seguendo la scia, fino a trovarci di fronte allo spaventoso spettacolo.
    Ciò che era di fronte a noi, era quello che un tempo doveva essere un solido villaggio, circondato da alte mura di canne, strette con robuste corde di corteccia, ma ora, quelle mura erano state sfondate e bruciate, così come le alte capanne, costruite su vasti ripiani sopraelevati: il puzzo di fumo era insostenibile, e ad esso si mescolava l'odore putrescente di carcasse bruciate, sparpagliate in ogni dove, un odore così spaventosamente simile a quello di Nairobi durante l'attacco.
    Solo allora, guardandoci intorno, notammo che innumerevoli alberi erano stati abbattuti, e tracce di pesanti veicoli segnavano il suolo fangoso della giungla: dunque qualche potente e corrotto aveva privato quegli innocenti villici della loro casa per i propri scopi? Eravamo dunque incappati in qualche sopruso dei grandi ottusi della terra? Come se non avessimo già abbastanza problemi, questo pensai.
    Ralph, dal canto suo, aveva cominciato a guardare per tutte le rovine, in cerca di qualche indizio, di superstiti, o molto più probabilmente, qualche scorta rimasta di cibo... Leona, già abbattuta com'era, cominciò a smuovere qualche cadavere, cercando di formare un cumulo dove raccoglierli: non era stato risparmiato nessuno, e l'attacco era recente, non più di un mese era passato.
    La curiosità verso simili atti che da sempre mi contraddistingue, il desiderio di sapere la verità, mi spronò a seguire le tracce dei veicoli per ritrovarli e scoprire il responsabile di quello scempio: di fatto, stavo già per dirigermi verso la porzione di foresta sfondata da cui le tracce sembravano allontanarsi, quando udii qualcosa alle mie spalle, e prima che potessi voltarmi, qualcosa mi afferrò per l'orlo dello smoking, già di per sé rovinato all'estremo, e con un forte strattone, mi costrinse a voltarmi.
    Riconobbi subito Meethu, che mi lanciò contro un miagolio spaventosamente lugubre, e mi fissò con occhi di fuoco.
    Povero caro... senza dubbio credeva che l'avessimo abbandonato al suo destino con Eleanor. Non seppi trattenermi: caddi in ginocchio e lo abbracciai stretto, lasciandomi andare a un debole pianto. Ero arrabbiato, triste e spaventato allo stesso tempo, ed ero colto da una stanchezza logorante... che cosa mi stava succedendo?

    Riuniti all'interno del villaggio facemmo il punto della situazione: Ralph, a furia di cercare, aveva fortunatamente trovato un magazzino sotterraneo, una specie di grotta nascosta da cumuli di fieno, usata come riserva dal villaggio nei casi di emergenza. Non era un granché, ma il cibo che sarebbe bastato a sfamare i poveri villici per poche settimane, in carne e formaggio, sarebbe bastato a nutrire noi tre per qualche mese... e poi cosa?
    Illustrai ai miei compagni la presenza delle tracce, il cui odore lasciò Meethu irritato e costantemente di cattivo umore: ringhiava ferocemente contro la traccia lasciata da qualunque veicolo fosse passato su quella terra, come se sentisse un nemico di fronte a sé. Leona fu d'accordo con me sul fatto che avremmo dovuto ispezionare, ma solo dopo aver ripreso le forze; purtroppo per noi, il fiume e il nostro accampamento erano abbastanza lontani dal villaggio in rovina, ed eravamo stanchi morti, anche se riuscimmo a riempirci lo stomaco fino ad essere soddisfatti, per la prima volta da quando avevamo lasciato Nairobi.
    Il giorno dopo, lo passammo a seppellire gli sventurati contadini e a riassettare i resti delle capanne in una specie di rifugio per noi tre: rimandai Meethu da Eleanor, che sicuramente era preoccupata alla follia per il suo compagno, e non lo rividi più per le due settimane successive, in cui io Ralph e Leona ci occupammo di trasportare le nostre scorte all'accampamento e a formulare un piano per scoprire l'identità dei misteriosi assalitori che avevano annientato quelle vite.

    Quella prima notte dopo il trasporto, non riuscivo a dormire... che il responsabile di quell'attacco, fosse ancora e sempre lui? Sulla mia vita, giurai, che se l'avessi trovato lì, lo avrei fatto a pezzi con le mie mani: avrebbe pagato anche per quello.
    Ma non potevo sapere, cosa sarebbe successo entro la fine di quell'anno.

    TO BE CONTINUED


    Scritto un po' in fretta e furia, ma credo di aver fatto del mio meglio.

    Edited by Gaoh - 23/8/2016, 10:11
     
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  10. Riky the lion
     
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    Gaoh, sei davvero un bravo scrittore!, usi un linguaggio molto adulto e questo è buono, e la storia mi sta interessando
    Sono arrivato al capitolo 7, i capitoli dopo li leggerò domani ^^

    Edited by Riky the lion - 16/7/2016, 20:39
     
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    Grazie Riky: da quando Pridelands98 è sparito nel nulla, mi serve qualcuno... Grazie di tutto cuore.
     
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  12. Riky the lion
     
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    E io sono lieto di farti compagna, di seguire la tua storia e commentarla, mi piace :)
    Diventerebbe anche un bel passa tempo, perché ogni capitolo lo leggo in minimo ma minimo 20 minuti XD
    Sono arrivato al capitolo 18

    Edited by Riky the lion - 17/7/2016, 18:31
     
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    Fa pure con calma: finché non avrò riparato il touchpad del PC non potrò scrivere adeguatamente con il cellulare.
     
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    Ottime notizie: ora che il touchpad funziona di nuovo posso postare.
    Ma prima deve tornarmi l'estro... mmmh...
    Per adesso tocca aspettare: devo trovare il modo di collegare i fili.
     
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  15. Riky the lion
     
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    Gaoh, senza offesa, ma mi ero fermato al capitolo 22 tempo fa... ed ora ho perso la voglia di leggere la ff... scusami... questa ff ha capitoli troppo lungi e faticosi, forse se avesse capitoli più corti (Non dico troppo corti) oppure l'avessi letta prima mi sarebbe interessata un po di più, la ff mi è piaciuta, ma ho perso la voglia di leggerla... mi dispiace.
     
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98 replies since 9/6/2014, 22:59   3124 views
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