The Days of Love

l'ultimo capitolo della Trilogia

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    Si continua.

    Capitolo 42: Unità
    Bunker ignoto
    Sabato, 16 agosto 1999, 05:50


    Non avevo idea di come o da dove i miei fedeli uomini fossero sbucati fuori, né tantomeno del perché, ma ero indubbiamente felice di rivederli, per quanto fossi inizialmente convinto che la loro presenza fosse soltanto un sogno, stimolato dalla follia che mi aveva afferrato. Solo dopo alcuni minuti realizzai che ero sveglio, e ciononostante la mia allegria fu smorzata da una pesante tristezza: fino all'ultimo quei due sciocchi avevano deciso di legare i loro destini al mio, nonostante fossero consapevoli di quanto ciò minacciasse di portarli alla rovina.
    "Ti tireremo fuori di qui, Abe!" sentii Ralph berciare, mentre cercava lungo le pareti un pannello di controllo per neutralizzare la barriera. "Non disperare!"
    Leona dal canto suo cercava con ogni mezzo di riportarmi alla ragione. "Siamo qui" diceva, "andrà tutto bene, vedrai."
    Se all'inizio li lasciai fare, non potei eventualmente reggere tutta quella urgenza che, io sapevo, era volta a uno scopo insensato: anche se mi avessero liberato, cosa più impossibile che ardua, non saremmo riusciti a fermare Clark Thrive e i suoi piani; la Rupe dei Re per prima, e il mondo intero dipoi sarebbero stati distrutti, e la colpa sarebbe stata unicamente mia.
    Cominciai con flebili sussurri, poi parlando, infine gridando, scongiurando e imprecando.
    "Ragazzi! Fatela finita!!" urlai. "State sprecando quel poco di tempo che vi resta! Tanto vale che troviate una buca abbastanza profonda e che vi ci seppelliate!!"
    "Non sai che cosa dici!" mi redarguì la soldatessa. "No!" replicai. "Voi non sapete! Ha preso l'anello! L'anello!!" gemetti piangendo, tutti quegli orribili ricordi che mi travolgevano il cervello fino a soffocare ogni altro pensiero, lasciando soltanto la vacuità di una disperazione inoppugnabile.

    Tra un gemito e un singhiozzo, ripetei tutto quel che Clark Thrive aveva detto, la verità mostruosa sulle sue origini, il potere che aveva innegabilmente ottenuto grazie al suo progetto, i suoi maniacali piani di distruzione, il destino che aveva scelto per la Rupe dei Re, e qui potei sentire Ralph lanciare una bestemmia tale che, se non fossimo stati sotto terra lo avrebbe sicuramente colpito un fulmine.

    "Per la morte dell'universo, Abe, vuoi startene zitto!?" sbraitò con tanta forza da sbalordirmi, mentre fracassava una console dietro l'altra. "Non siamo venuti qui per sentire i tuoi piagnistei: siamo venuti qui per salvarti il culo!!"
    Leona non fu da meno. "Pensi davvero che ti avremmo lasciato qui a marcire senza far niente!? Pensi che i tuoi leoni ci perdonerebbero se tornassimo senza di te? O che non gliela daremmo mai vinta a uno come Thrive!? Non ti permettiamo di arrenderti, Abraham!" concluse sbattendo i pugni sulla barriera come a volerla buttar giù a viva forza. "Ti salveremo e ti aiuteremo che tu lo voglia o no!!"
    Quella dissennata dimostrazione di affetto e stima riuscì a riempire il mio cuore di orgoglio nel sapere quanto quegli uomini mi amassero. Tuttavia, non potei fare a meno di chiedere.
    "Perché fate tutto questo? Vi ho abbandonati, ho cercato la vendetta per me stesso. Come potete volermi ancora con voi!?"

    "Siamo tuoi amici, Abraham!" fu la risposta di entrambi, all'unisono, detta con gentilezza, ma anche con una forza tale da non ammettere repliche. "Dovresti saperlo che noi non li lasciamo indietro, i nostri amici."

    Con quelle parole, la barriera cedette: a furia di sfondare tutto, Ralph era eventualmente riuscito a distruggere il circuito che la alimentava. Fui stretto nel più impetuoso degli abbracci. Ero salvo.
    Incapace come fui di trattenermi, piansi: piansi a lungo su quelle forti spalle. Avevo bisogno di così tanto conforto da non avere nemmeno le parole per descriverlo.


    --------------------------------------------

    Non sarò così inopportuno nel dire quanto a lungo durò il mio sfogo, ma fino all'ultima goccia di angoscia, sollievo, paura e gioia furono versate in lacrime sulle teste dei miei valorosissimi soldati. La speranza era tornata in me: non abbastanza da poter credere di contrastare Clark Thrive, ma almeno era un inizio.
    "Non sappiamo nemmeno dove sia!" feci notare subito. "Non so nemmeno dove siamo noi, adesso!"
    "Nel bel mezzo del Sahara, in un piccolo bunker sperduto a circa mezzo miglio sottoterra" confermò Leona. "Siamo andati molto a nord prima di poterti trovare, e quel maledetto non si è preso la briga di nascondere fino all'ultima traccia."
    Non ebbi nemmeno il tempo di chiedere come ci fossero riusciti che Ralph, da bravo esperto di inseguimenti mi fece presente che, "Chiunque fugga nel deserto si tradisce, in un modo o nell'altro: lasciando una traccia visibile, o un suono, o un odore." Clark Thrive aveva lasciato di quest'ultimo tipo: anche se la sabbia del deserto aveva nascosto le sue tracce, l'odore della gomma vulcanizzata, dell'olio carburante e del fumo di un potente veicolo cingolato era rimasto presente a lungo sulla rena, ed era bastato seguirlo per poter trovare i bunker, anche se nascosto, come mi rivelarono, in mezzo a un cumulo di rocce.

    "Possiamo soltanto immaginare come quel pazzo intenda portare avanti i suoi piani." borbottò Leona dopo aver finito di medicare le mie ferite. "Se intende muoversi nello spazio deve aver un veicolo aerospaziale a disposizione. Questo spiega perché ci abbia messo così tanto a darti la caccia."
    Aveva ragione: per quanto potente, nemmeno lui avrebbe potuto creare una cosa del genere in meno di due o tre anni.
    "Se ci muoviamo subito, possiamo ancora raggiungerlo prima che sia troppo tardi." fece Ralph, che già pregustava una battaglia degna di essere ricordata.
    "Non voglio rischiarvi, amici" mormorai ancora indolenzito. "Questa è la mia guerra!"
    "La nostra guerra, Abraham!" replicò Leona. "La devi smettere di voler fare tutto da solo!"
    "Con te vogliamo continuare, fino alla rovina e alla morte!"
    "Non ti libererai di noi, Abe!"
    Continuarono a subissarmi così tanto che non potei oppormi.
    "Siete impossibili, lo sapete, vero?"
    "Siamo Americani, Mist!" disse Leona, gonfiando il petto. "Lo sai che non rinunciamo fino alla sconfitta, vero?"

    Risi. Per la prima volta dopo tanto tempo, uno sprazzo di euforia colorò il mio volto.

    "Suppongo proprio di sì!"

    TO BE CONTINUED


    I capitoli si stanno facendo sempre più corti.
    Prima la finisco e meglio sarà.
    Non posso più garantire per la qualità, ma almeno la finirò.
     
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    Anche se mi manca l'ispirazione, non voglio fermarmi.
    Questa FF la finirò io o essa finirà me. Si accettano scommesse.

    Capitolo 43: Verso il destino
    Bunker ignoto
    Sabato, 16 agosto 1999, 09:22


    Ancora non ero sicuro che quel che stavamo per fare era la scelta giusta, ma l'entusiasmo dei miei fedeli americani era stato tale da non permettermi di essere di cattivo umore.
    Si erano premuniti di tutto: avevano portato gli ultimi avanzi di pane, caffè e frutta rimasti per rincuorare il mio corpo straziato e il mio spirito afflitto.
    "Gli ultimi avanzi, Abe" disse Ralph solo quando ebbi finito di riempirmi lo stomaco. "Gli ultimi, lo capisci? Ora non ci resta altro che affrontare la morte qui in silenzio o giocarcela una volta per tutte contro di lui." E conoscendo il mio bravo Yankee, sapevo fin troppo bene che avrebbe preferito una fine da soldato, combattendo per quello in cui credeva, senza paura di morire, ma solo timoroso di morire sapendo che c'era qualcosa che avrebbe potuto fare e non lo aveva fatto.
    Del resto, apprezzavo la sua cara persona proprio per quella inossidabile tenacia.
    Leona non fu da meno: lavorando di gran lena era riuscita a raccapezzare il mio corpo e a sanare quasi del tuttole mie ferite. Nonostante le mie proteste,
    mi giurarono di essersi preventivamente riempiti lo stomaco prima di accorrere in mio aiuto: non potevo sapere quanto ciò corrispondesse al vero, ma tentai, per quanto possibile, di convincermi a crederci.
    Come fui in grado di alzarmi, un nuovo, insolito vigore si impadronì di me: pensai a Londra, la mia amata città,
    a Praga e a Nairobi, che mi avevano accolto e accettato a cuore aperto, e io le avevo ricompensate portando solo portandogli in casa rovina, morte e distruzione.
    Soltanto la morte di Clark Thrive avrebbe espiato la mia anima da quell'odioso retaggio, riscattato il mio passato e liberato il mondo da un grande male, una volta per sempre.
    Con l'occhio della mente vidi lo spettacolo della Rupe dei Re, alta, superba come il primo giorno che l'avevo vista, splendente nella gloria del sole mattutino. Pensai a tutti i miei leoni, ai Grandi Re del Passato che vegliavano su di me e su quelle terre, e mi odiai per aver anche solo osato pensare di gettare la spugna.
    Come avrei potuto guardarli negli occhi quando li avessi rivisti nel regno eterno? Con che coraggio mi sarei potuto presentare all'assemblea ultraterrena di là di questo mondo, una volta che fosse scoccata la mia ora? Quali scuse avrei potuto inventarmi per giustificare quella debolezza a coloro che mi avevano eletto, ai grandi che, pur senza conoscermi, avevano riposto in me la massima fiducia?
    Come avrei fatto a non morire di vergogna di fronte a lei?!

    Semplicemente, avrei fatto meglio a sparire nel nulla, meritevole come sarei stato di essere dimenticato per sempre.

    Balzando in piedi, mi avventai sulla porta blindata, quasi scardinandola, e mi precipitai lungo un buio corridoio a malapena rischiarato da certe lampade elettriche mezze fulminate; solo i suoni dei miei passi sul duro ferro, il pomposo gocciolare della condensa,
    il battito del mio cuore e il mantice del mio respiro sentivo rimbombare in quella notte sotterranea, ma sapevo che i miei compagni erano sempre con me, sebbene facessero un po' di fatica a starmi alle calcagna.


    --------------------------------------------

    Al termine di una galoppata che mi parve straordinariamente lunga e, allo stesso tempo brevissima, giunsi alla grande tubatura di un pozzo scoperchiato, dalla cui apertura illuminata scendeva una lunga corda annodata, indubbiamente da Ralph e Leona, che mi avrebbe permesso di uscire e rivedere la luce, che già avevo disperato mi fosse stata negata per il resto dei miei giorni.
    Ma tanta fu la mia foga di uscire che mi aggrappai con le sole mani alle sporgenze della tubatura, issandomi come un leone per sfuggire all'abisso.
    Sentii come se il vigore di Mufasa in persona mi stesse inondando le membra, spingendomi sempre più verso la liberazione. Quell'immagine rinnovò il mio spirito più di quanto io stesso, o chiunque al mondo potesse immaginare. Lui, disgraziatamente non era sopravvissuto: io ci sarei riuscito anche a nome suo.
    Ruggente di esaltazione mi issai quasi senza nemmeno prendermi il tempo per respirare, e ululando con rabbia estatica, balzai nella luce.

    L'immane radiosità del giorno quasi mi privò della vista: sentire il caldo sole africano bruciare la mia pelle fu quanto di più inebriante potesse esserci per uno che era uscito da una tomba di vivi. Il vento, per quanto bollente, riempì i miei polmoni di una vita nuova e senza fine!

    Ero resuscitato!!

    A lungo mi persi nell'incommensurabile esaltazione di quella rinascita, e così i miei compagni ebbero tutto il tempo di uscire a loro volta e raggiungermi. Mi diedero parecchi minuti di euforia prima di farmi presente che il mondo era ancora in pericolo.
    Lì vicino notai una vettura non dissimile da quello che avevamo visto tempo addietro nella giungla.
    "Gentilmente concessaci in prestito da alcuni energumeni del nostro nemico" gongolò Ralph, issandosi con non poche difficoltà nel sedile di guida; Leona comprese quanto me quell'orrendo scherzo. Ciononostante, ne ridemmo tutti e due.
    Come la macchina fu messa in moto, fui colto da una stanchezza improvvisa, e mi lasciai andare a un sonno talmente profondo che desiderai non svegliarmi più.
    Ma sapevo, fin troppo bene che al mio risveglio avrei fatto meglio a prepararmi per il più grande scontro della mia vita.

    TO BE CONTINUED


    Ok, lo ammetto.
    Scrivere questo capitolo è stato esaltante.
    Alla prossima.

    Edited by Gaoh - 29/7/2021, 15:40
     
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    Ho perso il capitolo che dovevo postare.
    Sono un pochino alterato.
    Ora ci riprovo dal fisso.

    Con l'ultimo capitolo mi sono esaltato da solo.
    Posso solo sperare di replicare il miracolo.

    Capitolo 44: La bestia dei cieli
    Costa d'avorio
    Domenica, 17 agosto 1999, 15:00


    Il mio sonno era durato - come scoprii in seguito - per tutto il giorno, tutta la notte e metà del giorno seguente. Fu Leona a notificarmelo quando giungemmo a destinazione.
    Avevo sognato di correre senza tregua su di uno sconfinato deserto di cenere nera, sotto a un nero cielo senza luna e senza stelle, in una oscurità rischiarata soltanto da rade torce che si accendevano man mano che avanzavo nell'oscurità, come a volermi portare verso chissà cosa; il suono dei miei passi sulla rena facevano eco ai battiti del mio cuore, mentre il gelido sudore che colava sul mio corpo incandescente, privo di qualsiasi indumento o difesa evaporava in fumo.
    Non seppi mai verso cosa stavo correndo, se verso la Rupe dei Re, o Londra, o incontro alla morte stessa, ma so solo che quando fui svegliato, la sensazione fu come andare a sbattere contro un muro di mattoni. Cercai convulsamente Luxor, la strinsi e, con quella che mi parve una straordinaria lentezza, mi alzai e mi issai fuori dalla vettura. Mi sentivo straordinariamente intirizzito, e mi ci vollero parecchi minuti per riprendere il controllo dei miei muscoli; avevo dormito per quasi trenta ore.

    Un cielo mai più visto salutò il mio sguardo: nuvole tempestose si ammassavano su di noi, rollando rabbiosamente da nordovest, ruggendo sopra l'Atlantico - perché sul Golfo di Guinea ci trovavamo - e rumoreggiando fragorosamente il preludio di un temporale. Quella massa gassosa era tinta delle più lugubri e minacciose sfumature di blu, rosso, viola e nero, come se i cieli e l'inferno stessero andando in guerra, e a giudicare dal campo allestito vicino alle onde, non c'era quasi da dubitare.

    Eppure, era ben poco spettacolo da ciò che stava accadendo al largo.

    "Dio onnipotente!"

    Non so da quale bocca sia uscito questo improprio, se dalla mia, da quella di Ralph, o addirittura da quella di Leona, che è la più coscienziosa tra di noi, tanto fu il nostro sbalordimento, e ci può essere perdonato, perché quello che vedevamo aveva di più che dell'incredibile.
    Pareva una piattaforma petrolifera a prima vista, ma non poteva esserlo: era più simile a un incrocio tra un cantiere navale costruito a pelo sull'acqua e una voragine grande come una portaerei, costellata da macchinari di fattura ignota e dallo scopo sconosciuto, tanto aliena era la loro forma; nel suo abisso si fucinava qualcosa di grandioso e terribile; era il punto di attracco per un veliero straordinario, mai costruito prima, e conoscendo il mio atavico avversario, egli non si sarebbe accontentato di meno per la sua conquista del mondo. Una conquista che ormai appariva praticamente assicurata, a meno che non si fosse fatto qualcosa per impedirlo.

    E a quel qualcosa avremmo dovuto provvedere noi tre.

    Non ci si può incolpare se per un breve, tremendo istante i nostri cuori e i nostri spiriti tentennarono e dubitarono nella riuscita di una simile impresa. Cosa avremmo potuto, noi soli, armati di spade e lance, contro la scienza diabolica dell'Anello del Nibelungo? Noi, miseri tra gli uomini, sebbene capaci di tenere testa a un esercito, cosa avremmo potuto fare contro la forza che vince il mondo?
    Ciononostante, in pochi attimi il dubbio passò: non aveva importanza cosa avremmo potuto fare, bastava che lo facessimo, e anche se ci avremmo rimesso la vita, non dovevamo esitare a colpire. Avevamo troppo lottato, troppo sofferto, a troppo rinunciato, troppo sacrificato, svenduto e abbandonato per rinunciare al primo segno di un ostacolo all'apparenza insormontabile. Non avremmo più avuto il coraggio di guardarci in faccia se avessimo scelto di fuggire proprio ora, a un passo dalla resa dei conti. Saremmo stati peggio che vili, meno che vigliacchi.
    Saremmo stati veramente sconfitti.

    Con lo spirito rinnovato ci issammo lentamente giù per le scogliere, e senza farci vedere, scivolammo nell'accampamento.
    Tuttavia, il nostro sbalordimento si rinnovò quando non trovammo anima viva in giro: il campo era allestito, e le luminarie accese, ma non si vedeva uomo o soldato in circolazione. All'inizio dovemmo temere una nuova imboscata, ma il sospetto mutò in orrore quando, ai nostri nasi, fin troppo avvezzi, arrivò l'odore metallico, nauseante e inconfondibile del sangue, e quell'orrore centuplicò quando ne rintracciammo la fonte nelle baracche dalle porte sprangate.
    Leona ringhiò per il raccapriccio. "Li ha uccisi tutti!"
    "Indegni come erano di servirlo" le fece eco Ralph, stringendo i pugni. "Questi erano soltanto i primi. Non si fermerà finché non avrà ammazzato fino all'ultimo s****** che cercherà di sbarrargli la strada, dovesse anche voler dire restare il solo essere vivente sulla faccia della terra!"
    "Almeno" dissi, "qui ce ne sono tre pronti a fargli il solletico a morte!" Sfoderai Luxor e puntai verso la struttura lontana. "Noi gliela sbarreremo, una volta per tutte!!"
    "Sì" sibilò Leona, sfoderando lo spadone.
    "Sì!" ringhiò Ralph, brandendo mazza e scudo.
    Sollevando le armi, lanciammo in coro il nostro grido di sfida.

    "A MORTE!! A MORTE IL TRADITORE!!!"


    E ruggendo come pazzi ci lanciammo verso i moli, con la speranza di trovare un gommone con cui assaltare il nostro nemico.


    --------------------------------------------

    Fummo assai più fortunati di quanto mi piaccia ammettere: avevo temuto che ci sarebbe stato bisogno di mettere insieme qualcosa per fare un gommone, ma frugando nella rimessa sulla sponda, avevamo trovato un piccolo battello a motore, ideale per quel che avevamo in mente.
    Di lì a poco eravamo in alto mare, e sebbene l'uragano timoneggiasse contro di noi, minacciando con ogni onda di farci colare a picco, non ce ne curammo: con Leona a governare e me a respingere l'assalto delle onde assieme a Ralph, nulla ci avrebbe ostacolati; avremmo lasciato le potenze della natura a mordere la sua stessa aria, a bocca asciutta, prima di rifilarle in gola il boccone più grande e prelibato che le si potesse offrire: una vita di male puro, degna di finire seppellita nel più profondo abisso!

    Noi tre lo avremmo fatto, noi! Gli infimi, con la forza degli antichi eroi! Perché in quel momento supremo eravamo più che noi tre singolarmente: eravamo un tutt'uno inscindibile, e anche se uno dei tre fosse caduto, gli altri due avrebbero seguitato, ereditandone forza e furore. Volente o nolente, consenziente o incosciente, Clark Thrive avrebbe affrontato la rivalsa di tre che non desideravano altro che fargliela scontare per tutti i suoi crimini.

    La piattaforma, come la base era priva di vita, ma sapevamo che, di lì a poco, sarebbe stata percorsa da un grande fremito; districandoci per quegli stretti corridoi di cavi, gru, ascensori e pannelli, giungemmo sull'orlo della voragine, vasta abbastanza da farci passare tutti i treni di Londra con la macchina accesa, tutti in una volta.
    Non dovemmo aspettare a lungo.
    Come l'uragano aumentò di forza, la struttura, dalla sommità alle fondamenta fu scossa, e noi sapemmo, consci sia del come che del perché, che l'ora era giunta.
    Dagli abissi neri sorse, immane, gloriosa, terribile, una nave volante di forme grottesche e orribili; fu come se un groviglio di gargoyles e dragoni fosse emerso dalle sanguinose voragini dell'inferno, sollevati da un nugolo di enormi eliche.
    Spaventosamente si innalzò, e noi, senza capire perché, sapemmo che non potevamo permetterci di indugiare: saltammo, allora o mai più, per aggrapparci all'immenso mostro di ferro, e ci issammo sulla sua facciata con mani e piedi, Fu il momento di massimo terrore: un solo sbaglio e saremmo precipitati in una caduta tale da morirne prima ancora di toccare il duro muro delle onde sotto di noi. In pochi attimi ci eravamo alzati di trecento metri da terra, il gelido vento schiaffeggiava furiosamente le nostre membra come se fossimo stati zanzare fastidiose, ma noi non mollammo; ci arrampicammo tra lacrime, pioggia, sudore e sangue fino a raggiungere un parapetto, issandoci a bordo in un corridoio esterno, e da lì, in una porticina laterale, nelle viscere della nave.

    Eravamo dentro.
    Non restava altro che trovare Clark Thrive.



    TO BE CONTINUED


    Ce l'ho fatta.
    Meno sei.

    Alla prossima, gente.
    Prossimo capitolo, momento dramma.

    Edited by Gaoh - 9/8/2021, 17:41
     
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    Potrei non sapere come riempire questo capitolo, ma ci proverò lo stesso.

    Capitolo 45: Nel ventre della bestia
    Oceano Atlantico
    Domenica, 17 agosto 1999, 18:00


    Se ancora oggi tremo al pensiero di quanto fossimo vicini alla morte in quel supremo momento, allora i miei pensieri erano occupati in ben altre preoccupazioni: sapevo che l'ora della resa dei conti era a pochi metri e ancor meno minuti di distanza, e per quanto mi desse fastidio ammetterlo, non ero sicuro di vincere al cento per cento. La mia testa bruciava come un altoforno mentre ripassavo tutto quel che c'era da ricordare su Clark Thrive e sulle sue facoltà. Ex colonnello delle forze armate degli Stati Uniti d'America, maestro di più della metà delle arti marziali conosciute di tutto il mondo, tiratore eccellentissimo, spia e doppiogiochista di infamia intercontinentale, coideatore e primo mecenate del progetto Estremo Rosso, di cui io ero stato eletto come cavia, e per il quale Mina, la mia adorata Mina era stato uccisa.
    Mi venne un nodo in gola al pensiero, e tanto ne fui invischiato da quasi spezzarmi la testa contro il muro del corridoio in cui stavamo correndo a perdifiato.

    Ralph e Leona davano palesemente segno di condividere in tutto i miei pensieri, e da molto tempo avevo smesso di dubitarne: troppe volte me lo avevano ripetuto, e anche se avesse voluto dire andare incontro alla morte assieme a me, non avrebbero esitato.
    Tuttavia, dovevano riconoscere - come me, del resto - che quello che stavamo per affrontare non era più l'uomo ambizioso e spietato di un tempo. Ora, con i frutti migliorati del suo satanico progetto e il potere dell'Anello del Nibelungo a sua disposizione, era indubbiamente diventato quanto di più simile a un re di demoni, e pronto più che mai a far calare il martello della sua vendetta sul mondo, a cominciare dalle Terre del Branco, il tutto per farmi soffrire come castigo per aver preso, tenuto e allontanato da lui ciò che era sempre stato suo, e che ora era tornato in suo possesso.

    Le cose che gli uomini sono capaci di fare per amore del potere, sempre che di amore si possa parlare, sono agghiaccianti.
    Il meraviglioso sentimento che tutto smuove nell'universo non poteva avere niente a che fare con quella smania feroce, implacabile, infernale, disperata e maledetta di elevarsi al di sopra di tutto e tutti, prendere per sé stessi il nome di sovranità che sovrasta ogni altro e autoproclamarsi sovrano, despota, Dio.

    In questo c'erano molti paralleli con Scar, e la cicatrice che io gli avevo lasciato era soltanto il più piccolo riferimento. Eppure, tra di loro c'era la sostanziale differenza che Scar aveva saputo rinunciare al passato, e per questo era stato liberato dal suo male prima di morire.
    Clark Thrive non avrebbe mai potuto, saputo, o anche solo voluto rinunciare a ciò che era la sua suprema convinzione di superiorità, e nemmeno l'oblio della morte lo avrebbe liberato da quella ossessione.


    --------------------------------------------

    La nostra galoppata continuò per quelli che parvero giorni interi nelle viscere della gigantesca aeronave, quando in realtà ci impiegammo poco più di un'ora per risalire la foresta d'acciaio con i suoi ingranaggi e le sue eliche giganti. Chiunque fosse finito preso in quel turbine di macchinari sarebbe stato triturato prima ancora di riuscire a gridare.
    Ciò che mi sorprese di più, era che non avevamo trovato la benché minima opposizione nell'ascendere verso i quartieri superiori, il ponte principale e lungo la strada verso la sala comandi.
    Possibile che il perfido fosse da solo e non si curasse minimamente del fatto che noi fossimo a bordo, e la sua malvagia vita in pericolo!?
    Si sarebbe potuto dire che lo ignorasse, visto e considerato che non aveva creduto che fosse possibile per me liberarmi dal bunker in cui mi aveva sepolto vivo; ciononostante, l'idea di non essere considerato una minaccia rilevante mi fece salire il sangue al cervello, e ringhiando come un leone mi lanciai a tutta forza, distanziandomi dai miei compagni, ignorando le loro suppliche che risuonavano alle mie spalle.

    Superai in corsa il corridoio in cui erano installate numerose capsule per l'ingegneria bionica, colme di liquido di coltura fosforescente, in cui pulsavano orrori inenarrabili, e mi lanciai su per una ricca scalinata, simile agli interni di un grand hotel, e giunsi fino a una grande porta blindata e decorata con bassorilievi in ottone e bronzo.

    Aggredii la porta con tutte le mie forze, e anche quando i miei amici mi raggiunsero e cercarono subito di farmi desistere, non detti segno di volermi fermare.
    Tra le loro suppliche riuscii solo a comprendere poche parole, tanto ero sordo alle loro ragioni.
    "Abbiamo bisogno di un piano, Abe!" mi gridavano disperati. "Devi risparmiare le forze. Non puoi sapere cosa ci aspetta da questo punto. Non possiamo batterlo senza di te!" furono tra le cose che riesco ancora a ricordare.

    E non diedi loro retta: avevo troppo atteso di potergliela far pagare a quel dannato per tutti i crimini che aveva commesso, e a forza di tirare, prendere a pugni e a calci quel portone senza lucchetto o serratura, riuscii ad aprire uno spiraglio.
    "È aperto" latrai, restando sbalordito di quanto mi si fosse arrochita la voce. Con forza decuplicata dalla furia, afferrai il pertugio, ed esso si liquefò per il calore sprigionato dalle mie mani, la mia Incalcolabile Ira scatenata al massimo delle sue possibilità.
    Di fronte a me si apriva un lungo e buio corridoio, ma non avevo dubbi che la sala comandi fosse ormai a pochi passi da noi.
    "Andiamo!" berciai, prima che le forti braccia di Ralph mi trascinassero indietro. Scalpitai protestando, ma il corpulento Yankee gridò più forte di me.
    "Abraham! Devi darti una calmata! Non devi lasciare che la tua rabbia ti comandi! Dobbiamo restare uniti, o lui--!"

    BANG




    Una detonazione risuonò come un'esplosione, echeggiando fin negli abissi della nave, e sentii chiaramente l'odore del sangue. Paralizzato dall'orrore cercai il volto di Ralph, e vidi che il suo volto era sbiancato.
    I nostri occhi si abbassarono insieme sul petto dello Yankee, e fu troppo lampante il buco fumante e sanguinante nella sua camicia all'altezza del fegato.

    Era stato colpito in pieno.
    TO BE CONTINUED


    Meno cinque.
    Sono a metà strada per finire.

    Alla prossima, gente.
     
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    Momento drammatico in arrivo.

    Capitolo 46: Conseguenze
    Oceano Atlantico
    Domenica, 17 agosto 1999, 19:15


    Gridai quasi senza rendermene conto, quando Ralph Fitzgerald Quinton Ross cadde riverso sulla scalinata, minacciando di travolgere Leona dietro di lui. Fortunatamente, le braccia della soldatessa furono forti abbastanza da trattenere la caduta e impedire che la testa spettinata dello Yankee si spezzasse sui gradini d'acciaio.
    In quell'istante, vidi scorrermi davanti tutti i momenti che avevo vissuto assieme a quei due americani a cui ero già profondamente indebitato per tutto quello che avevano fatto per me, dal nostro incontro nella lontana e assolata Francia, ai giorni mai dimenticati di Praga e ai tormenti a cui eravamo sopravvissuti per miracolo, alla nostra riunione inaspettata e ai giorni di gioia e dolore nelle Terre del Branco, e infine all'anno passato a vivere come bestie selvatiche nella giungla in seguito alla nostra disastrosa fuga da Nairobi. Ogni giorno, ogni minuto, ogni istante loro erano rimasti con me e avevano promesso di condividere il loro destino con il mio.
    A quel punto ci avevo fatto l'abitudine; mi ero detto che avrei saputo accettare perfino la loro morte se necessario. Ero convinto di poter essere forte e superare anche una tragedia simile.
    Ero certo di poter reggere...

    E non mi sarei potuto sbagliare di più.

    L'idea che il mio migliore amico fosse stato ferito mortalmente, e peggio, perché impegnato a trattenere il mio cieco furore, mi squagliò il cervello, e tutti i miei sensi non videro, percepirono e intesero altro che Ralph.
    In un batter d'occhi fui su di lui, stringendo d'istinto le mani sulla ferita sanguinante, anche se sapevo che non ci sarebbe stato niente da fare: nessuno sopravvive a un buco nel fegato, la perdita di sangue era troppo grave, e nel giro di due minuti al massimo, egli avrebbe chiuso gli occhi per non aprirli mai più.

    In quella, sentii chiaramente una risata: roca, bassa, profonda, beffarda; la risata diabolica che mi aveva perseguitato fin dal giorno in cui avevo lasciato Praga, l'orrore di ogni mia notte, il tormento e la persecuzione che mi avrebbero accompagnato fino alla tomba.

    Thrive!


    Ruggente, feci per lanciarmi nel corridoio, avesse anche voluto dire finire crivellato da una fiumana infinita di proiettili fino a venire polverizzato. Non me ne importava: sentivo che sarei riuscito ad arrivare a Thrive anche se della mia persona fosse sopravvissuto un singolo capello, nel quale avrei infuso tutta la mia volontà, tutto il mio vigore, tutta la mia Ira affinché si stringesse al collo del tiranno e gli stritolasse a morte la trachea.

    Tuttavia, prima che potessi fare un solo passo, qualcosa mi afferrò saldamente il polso sinistro.
    Riconobbi la morsa di una mano, e da subito pensai che Leona mi stesse trattenendo; ero talmente sconvolto da non rendermi conto che quella mano non poteva essere di Leona: era troppo grande.
    Infatti, quando mi voltai di scatto per darle uno schiaffo - lo ammetto e me ne vergogno - rimasi impietrito nel vedere Ralph stringermi la mano e fissarmi con gli occhi sbarrati, nonostante la ferita mortale.


    --------------------------------------------

    In quel momento terribile fui preso fra due vie, egualmente orribili: fuggire avanti verso uno scontro in cui avrei trovato quasi sicuramente la morte, lasciando il mio amico a morire senza il mio conforto, o restare accanto a lui nel momento in cui aveva più bisogno di me che mai e rischiare di essere preso alle spalle dal colpo di quel cane traditore.
    Fu solo con uno sforzo disperato che optai finalmente per la seconda opzione, stringendo a me la testa di Ralph con il braccio libero. Era stato ferito sotto la mia stretta, come un moderno Mercuzio, e al pari di Romeo, ora non potevo fare altro che attendere il momento terribile in cui lo avrei pianto per il resto dei miei giorni. E l'attesa della morte di una persona amata è a volte peggio del vivere con la consapevolezza che non potrai più vedere il suo sorriso, né sentire la sua voce.
    Troppi avevano sofferto un simile destino: Simba con suo padre, Sarabi e Sarafina con i loro compagni, molti leoni e leonesse con i loro fratelli e sorelle; io avevo già sofferto una volta quella atrocità con la mia Mina, ma ora, il pensiero di subire una seconda volta quel tormento mi paralizzò per la troppa disperazione.
    Solo quando le parole di Ralph, sussurrate tartagliando mi raggiunsero, riuscii a ritrovare me stesso, e i miei sensi furono di nuovo su di lui.
    "Ehilà, Abe" disse in un sorriso tremante. "Sembra proprio che io sarò il p-primo ad andare giù, eh?"
    "Non parlare!" gemetti. "Risparmia le forze!"
    Lo strinsi ancora più forte, lasciando che i miei occhi piovessero fino all'ultima lacrima di cui erano capaci.
    Anche Leona piangeva, incapace di trattenersi: pur trattandosi di un suo subalterno, era ovvio che ella lo amasse teneramente, e il pensiero di stare per perderlo la faceva soffrire più di quanto mi sarei potuto immaginare.
    La debole risata di Ralph mi spinse a guardarlo negli occhi ormai già semichiusi.
    "Certo che... non ti fai problemi a piangere. Sei proprio un mollaccione, Abe." E con quelle parole scoppiò fragilmente a ridere, e io lo abbracciai con delicatezza, cullandolo negli ultimi istanti, finché quella risata non si spense del tutto, e quei muscoli possenti si irrigidirono nelle mie braccia.

    Un silenzio mostruoso ci avvolse nel buio per svariati minuti prima che io mi alzassi. Guardando Leona, vidi che aveva pianto addirittura più di me: non era in condizioni di andare oltre. Per quanto caparbia, era pur sempre una donna.
    "Portalo fuori di qui" le ordinai. "So che questa nave contiene dei mezzi di trasporto per tornare sulla terraferma. Dirigiti in basso e sono certo che li troverai!"
    "E tu cosa farai, Abraham?" domandò lei con la voce rotta. "Vuoi veramente affrontarlo da solo?"
    "È destino che sia così" risposi, tradendo il mio ideale che non esistesse il destino. "Voglia il cielo che Ralph sia l'ultima vittima di Clark Thrive. La sua morte mi è stata consacrata tanto quanto la mia a lui. Stanotte, uno di noi finirà all'inferno, Leona. Se possibile, sarebbe meglio se ci ammazzassimo a vicenda." Guardando l'espressione terrorizzata di Leona potevo vedere che i miei occhi rossi stessero spaventosamente brillando nell'oscurità.
    "Io e lui siamo uguali, Leona. Siamo due mostri di cui questo mondo non ha bisogno. Deve finire così, o non finirà mai."
    La soldatessa non ebbe di che replicare: in un altro momento mi avrebbe rimproverato dicendo che io non ero affatto come Thrive, e avrei potuto anche darle ragione al riguardo. Ma ora eravamo entrambi troppo afflitti: nessuna parola ci avrebbe consolati.

    Mentre scendeva per la scalinata, barcollando sotto il peso del corpo di Ralph, le gridai dietro.
    "Non aspettarmi, qualunque cosa accada! E non pensare di toglierti la vita, Leona! Hai ancora troppo per cui vivere!"
    Non mi rispose, e io non insistetti. Ormai non mi era rimasto nulla per cui vivere, se non porre fine a quel dramma di cui ero stato protagonista per troppo tempo.
    Raccattata la mia Luxor, presi per buona misura anche lo scudo di Ralph, e con la testa più lucida mi incamminai per il corridoio buio.
    TO BE CONTINUED


    Meno quattro.

    Alla prossima.

    Edited by Gaoh - 24/8/2021, 12:45
     
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    Per prepararci allo scontro finale.
    Ho scritto seguendo la pancia fino ad ora. Vediamo cosa uscirà fuori stavolta.

    Capitolo 47: Il volere del destino
    Oceano Atlantico
    Domenica, 17 agosto 1999, 19:40


    Dovevo essere rimasto sbalordito per almeno mezz'ora sull'ingresso del corridoio, prima di riuscire a mettermi veramente in cammino.
    Non era che temessi chissà quale tradimento o imboscata, ma la consapevolezza di avere sostanzialmente accettato di essere arrivato al capolinea, dopo tutti quei mesi passati a inseguire un'ombra in cerca di un riscatto, di una liberazione da quella che era stata la mia vita, mi aveva paralizzato le ginocchia.
    Anche se ero ormai giunto alla fine, e tornare indietro sarebbe stato vile e stupido, non potevo fare a meno di sentirmi impreparato per quello scontro.
    Mi concentrai a lungo su tutto quello che il perfido Colonnello decaduto avesse fatto patire, non soltanto a me, ma anche al mondo intero, per ritrovare la baldanza.
    Pensai a Ni e a Sarafina, ai coniugi Ferguson e alla bella Nairobi ridotta in cenere, a Praga e...
    A lei.

    Senza rendermene conto, mi ero già incamminato nell'oscurità.

    Come i miei occhi si abituarono alla notte di quel luogo, notai che ovunque nel corridoio erano specchi, e vidi riflesso all'infinito il mio sguardo folle e stralunato, la mia faccia distorta in una smorfia orrenda di pura malizia, ma non ne rimasi spaventato o interdetto: era l'espressione adeguata per un mostro che presto sarebbe sprofondato nel più profondo abisso; la sola cosa che importava era che l'altro mostro presente in quella aereonave precipitasse, sprofondasse, annegasse e sparisse per sempre assieme a me.

    Nel corso della mia camminata non incappai in trappole di alcun genere: da uno come Thrive mi sarei potuto aspettare trabocchetti infernali di ogni sorta, lame rotanti, frecce avvelenate, botole aperte su pozzi pieni di spiedi di ferro, o addirittura sul vuoto tempestoso sotto di noi. Ma no: i soli suoni che sentivo, a parte l'eco dei miei passi e il martellare del mio sangue nelle mie orecchie, erano i tuoni che infuriavano di fuori, segno che la nave volante si trovasse nascosta in qualche cumulonembo, in agguato come una incommensurabile bestia in attesa di colpire, e il suo bersaglio era stabilito: la Rupe dei Re.
    Il pensiero che i miei leoni, coloro a cui avevo rinunciato fossero ancora in pericolo per colpa mia mi fece accellerare il passo. Avevano già sofferto troppo a causa del mio passato.
    Mai più, giurai. Mai più!

    Corsi quasi alla cieca, e per poco non mi spezzai la testa contro l'immenso portone di legno che mi trovai davanti al termine di una corsa durata forse dieci minuti, forse una vita intera.
    Il corridoio aveva cambiato aspetto nel frattempo, rassomigliando sempre più l'interno di una ricca villa, con alte finestre a mostrare l'uragano di fuori. E Clark Thrive era appena più avanti.

    Per quanto desiderassi irrompere dentro e sfasciare ogni cosa assieme a lui, non volli dimenticare le mie buone maniere: sono pur sempre un britannico di madrepatria, io. Non sarei stato io a cominciare quell'ultima, tremenda lotta, ma l'avrei conclusa, come è vero che le stelle bruciano.
    Bussai.
    Solo dopo un lungo, mostruoso silenzio udii la voce del mio nemico.

    "Avanti".



    --------------------------------------------

    L'interno della sala comandi era quanto di più simile a un vero e proprio salotto, ricco di mobili, tappeti e chincaglierie degne della più sontuosa abitazione di un ricco cacciatore o possidente; tutt'altro che la residenza di un membro dell'esercito statunitense. Oramai, il mio nemico aveva abbandonato ogni pretesa: già sentiva proprio il nome di divinità, e come tale si atteggiava.
    Potei perfino sentire il suo applauso sarcastico mentre si alzava da una immane poltrona in fondo alla stanza, dietro a una ricca scrivania di mogano, davanti a una colossale vetrata panoramica che occupava l'intero muro. Indossava una vestaglia tutta bianca, ma le sue mani erano coperte di metallo, e sapevo che era pronto a ricevermi.
    I suoi capelli erano pettinati, e la cicatrice sul suo viso gli donava un fascino che mi ricordava sempre più Scar, ma il resto della sua fisionomia era stato deformato dal potere del Progetto Estremo Rosso. Era diventato veramente il Signore dei Demoni, profanatore e devastatore del mondo intero.
    O lo sarebbe diventato se non avessi avuto io qualcosa da ridire in proposito.
    Strinsi con forza la mia asta, ma non attaccai ancora.

    "Benarrivato, Abraham, ragazzo mio" mi salutò con fin troppa cordialità. "Alla fine ce l'hai fatta veramente. Sei veramente come avevo sperato e previsto."
    A quella facciata di cordialità quasi persi subito il lume della ragione.
    "Taglia corto, cane di inferno" latrai a mezza voce. "Lo sai perché sono qui."
    "E nonostante tutto" rispose lui, prendendosi un attimo per sorseggiare del vino, "io voglio continuare a sperare che ci possa essere un'intesa fra di noi, come in quel giorno a Praga, tanto tempo fa."
    Lentamente mi mossi verso di lui, deciso a colpire non appena mi si fosse presentata l'opportunità. Lui quasi non mi prestò attenzione, e continuò a smonologare.

    "Ricordi, Abraham, con quanta disponibilità ti sei offerto per il nostro progetto? Sei stato un risultato straordinario, e devo ringraziarti di tutto cuore, ancora una volta."
    Non lo ascoltavo quasi più. Le sue vergognose bugie erano quanto di più osceno esistesse per me.
    "Possiamo ancora condividere quel sogno, Abraham" concluse lui, porgendomi la mano. "Unisciti a me, e il nuovo mondo sarà ai tuoi ordini in qualità di mio vassallo. Immagina, Abraham: tutte le ricchezze di una terra morente saranno tue, e con il potere dell'Anello del Nibelungo, ti sarà data la forza di plasmarne la devastazione a tuo piacimento: potrai dare nuova vita a ciò che ti circonda e strapparla da tutto ciò che ti sarà di disturbo. Gli esseri viventi si inginocchieranno a te, come in adorazione" e qui, scandì con languida volgarità, "di una divinità".
    Ero ormai a un passo da lui, e con un colpo gli schiaffai via il bicchiere dalla mano: si infranse prima di toccare terra.
    Clark Thrive mi guardò con aria delusa, quasi infischiandosene dello sguardo di morte che gli stavo rifilando.
    "Ho perso Mina per causa tua. Hai distrutto Praga e Nairobi. Hai ucciso Ralph e minacci le Terre del Branco. Meriti di morire."
    "Perché, Abraham?" domandò lui afflitto, o meglio, fingendo afflizione. "Non può esistere amicizia fra di noi? Lo vedi come l'essere vincolati al passato ci impedisce di andare avanti, di conquistare il nostro futuro?"
    "BASTA CON QUESTE MENZOGNE BESTIA DI SATANA!!!"
    L'eco del mio grido fu accompagnato dal colpo che gli rifilai. Sfortunatamente, l'avambraccio di Thrive, corazzato come era, lo fermò.
    Squadrando in cagnesco quel sorriso odioso, sibilai: "Non hai fatto altro che mentire per tutta la vita. Sei incapace di mostrare sincerità. Le tue offerte, la tua caritatevolezza e le tue promesse sono fumo e cenere. Ti diverti così tanto a far soffrire la gente così!?"
    Il sorriso di Clark Thrive si fece diabolico.
    "Immensamente. Ne valeva la pena solo per vedere come avresti reagito."
    Con uno sforzo pazzesco mi respinse, facendomi volare fino alla porta.
    "Un vero peccato. Avrei preferito torturarti ancora un po', ma dovrò risolverla prima del previsto." Toltasi la vestaglia rivelò il suo mostruoso corpo modificato, di cui io non farò parola, e si mise in posizione di guardia.
    Nei suoi occhi brillò una scintilla di malinconia.
    "Occuperai per sempre un posto speciale nel mio cuore, Abraham. Vieni ora: non facciamo aspettare oltre l'eternità!"

    Non ebbi più la forza di trattenermi.
    TO BE CONTINUED


    Meno tre

    Aspettavo questo momento da quasi sei anni.
    Ce ne è voluto, ma ormai ci siamo.
    Alla prossima per lo scontro finale.
     
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    E mo' sono c@ZS!

    Capitolo 48: Scontro tra Titani
    Oceano Atlantico
    Domenica, 17 agosto 1999, 19:55


    La furia del mio colpo incontrò la solidità del corpo d'acciaio del mio avversario. Triplicando, quadruplicando gli sforzi rinnovai l'assalto, ma anche con la ferocia che mettevo in ogni colpo, Clark Thrive ne usciva sempre incolume: quel dannato era pur sempre un esperto di arti marziali, un istruttore dell'esercito degli Stati Uniti d'America, e non sarebbe crollato così facilmente; dubito che perfino un leone o più leoni sarebbero riusciti a vincerlo, ed è per quel motivo che non potevo assolutamente permettermi di perdere.
    Non sarebbe finita come a Praga: lo avrei finito, una volta per tutte, anche a costo della vita.
    Dopo alcuni minuti di assalto, dovetti comunque accettare che non sarebbe servito a nulla se non a farmi prosciugare fino all'ultima goccia di sudore che avevo in corpo, e balzai indietro. Il suono beffardo della sua risata mi rimbombò nelle orecchie.
    "Sempre la solita testa calda, Abraham" rise sprezzante, spiegando quei tronchi macroscopici che erano le sue braccia, pulsanti di potere incontrastabile. "Continui a dimenticare che io sono sempre tre passi avanti a chiunque: tu sarai anche stato il primo, ma io" aggiunse, il suo volto mutato in una maschera di sadico piacere, "io sono perfezionato! Come puoi vedere, ti sono superiore in tutto! Non esiste speranza per te, qui, a meno che tu non usi ciò che io ti ho dato!"

    Aveva ragione.
    Mi stavo trattenendo, ma non perché avevo paura di usare quel potere: avevo giurato che lo avrei schiacciato con quel dono, e lo avrei fatto; tuttavia, avevo il timore di perdermi, di diventare come lui, anzi peggio. Il pensiero di Mina, di cosa avrebbe pensato di me se mi avesse visto, non mi permetteva di essere crudele come volevo. Non avrei potuto perdonarmi una decadenza simile.
    Ma al guardare l'espressione trionfante su quel volto odiato, maledetto per anni, fui nuovamente accecato dalla furia: mi scagliai, brandendo l'asta sfoderata a piene mani, deciso a piantargliela nel cranio.
    Gli bastò solo un pugno per scagliarmi via.

    "Bloccato! Ancora, ancora, ancora e ancora, Abraham!" strepitò lui, sputando indignato. "Privo di disciplina, impaurito da ciò che potresti fare, debole e inerme! Fino all'ultimo vuoi essere una delusione, signor Mist?! Fino all'ultimo vuoi rinnegare ciò che sei veramente?!"

    Gridando di rabbia, cedetti: la mia mente si vuotò del tutto, schiaffando i pugni sul pavimento della stanza: un boato mostruoso, la sensazione di vuoto, un tonfo, i sensi risvegliati dal dolore. Il mio colpo aveva fatto crollare l'ufficio, ed eravamo precipitati nelle viscere della nave, tra ingranaggi e ponti sospesi su un oceano di metallo mobile e morte. Clark Thrive rise compiaciuto.
    "Magnifico, magnifico davvero, Abraham!" Voltandomi, lo vidi in piedi, le mani sfolgoranti di saette, il suo corpo ribollente di un'energia tale che avrebbe potuto trasformare il mondo, al suo indice destro, l'Anello brillava di una luce imperitura, il simbolo di un male antico tornato in auge, che minacciava ogni cosa si fosse intromessa sul suo cammino.
    "Finalmente" continuò lui facendosi avanti, "non abbiamo più ragione di trattenerci, dico bene? Il nostro destino è sempre stato questo, Abraham! Sii tu la ragione che mi spingerà ad andare fino in fondo!! Non essere più uomo! Sii quello che sei nato per essere! Spezza! Infuria!! Devasta!!!"

    Qualcosa nella mia testa si spezzò.
    I volti di Mina, Mufasa, Taka, Simba, Nala, Sarabi, Sarafina mi balenarono davanti: nei loro occhi vidi tristezza, dolore, paura... e per la prima volta in vita mia, non temetti di essere giudicato.
    Cacciai dalla mia mente quei volti che ora sprezzavo; non sarebbero stati loro a frenarmi. Su una cosa dovevo dare ragione a Clark Thrive: io non ero più un uomo, né una bestia, né un angelo, né un demone. Non ero più nulla di tutto ciò; ero una cosa diversa, nuova e terribile. In me si manifestò una forza più vasta e mostruosa di
    quanto avessi sviluppato fino ad allora: ero una fiamma bruciante che avrebbe divorato ogni cosa fino a ridurla a un silenzio di morte; ero la rovina che avrebbe schiacciato le nazioni e affondato gli imperi del cielo, della terra e di tutti i tempi; ero l'odio reso carne e vendetta, un mietitore dalle ali insanguinate che avrebbe trionfato su tutto, nonostante tutto e a dispetto di tutto.

    Ero diventato morte: il distruttore di mondi.



    --------------------------------------------

    Fu come se il tempo si fosse interrotto, lasciando a me lo spazio di far tutto quel che mi pareva: l'aria stessa si incendiò al mio passaggio, l'asta e Murasame lampeggiarono insieme, raggiunsero il corpo dell'uomo che io odiavo, lacerarono a fondo le sue spalle, lo sentii gemere, e da lì, una zuffa mai più vista si scatenò tra di noi. Le sue saette ardevano la mia pelle, così come le mie fiamme guizzavano sulla sua testa: eravamo diventati due calamità naturali di uguale potenza, avvinte in un abbraccio di pura e assoluta distruzione.
    Ma non gliela avrei data vinta: la sua tempesta non avrebbe estinto il mio incendio, avrei dato fuoco alle nuvole stesse per impedire a qualsivoglia pioggia di smorzarmi, avesse voluto dire ridurre il mondo intero in cenere.
    Lo avrei distrutto.
    Distruggere.
    Distruggere.
    Distruggere!
    DISTRUGGERE!!!

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    .
    E solo la morte mi avrebbe dato la pace.

    A un certo punto, le sue mani afferrarono la lama della mia spada, e con furia la torsero nel tentativo di spezzarla; con ferocia la ritrassi per tagliargli le grinfie, nell'acciaio lucente vidi i miei stessi occhi insanguinati dall'Ira, e con un fragore assordante e un'esplosione di potenza inaudita, la mia chisagatana, la mia fedelissima compagna si frantumò. Un dolore lancinante mi trafisse le mani, e ritrovai la mia lucidità.
    Guardando le mie mani, notai che avevo perduto l'anulare destro e le ultime due dita della mano sinistra: sanguinavano, un sangue rosso, la riprova che io sono uomo, figlio di uomini e di questa terra. Ricordai anche che Clark Thrive doveva essere ancora vivo: lo cercai con lo sguardo, e notai che nell'esplosione, gran parte della sala macchine era rimasta danneggiata. Il mio nemico era di fronte a me, ustionato, bocconi, ansimante e sanguinante, ma ancora ridente. Luxor si trovava a un passo da me, e la afferrai convulso.
    Subito mi lanciai su di lui, come se non avessi dovuto fare altro fin dal giorno in cui nacqui; egli tentò la difesa, ma il suo braccio sinistro fu spezzato con uno schiocco mostruoso dal colpo che la mia lancia seppe dare; sfoderando la punta, dandomi la spinta con tutta la schiena, piantai quell'arma nell'addome del mostro, e la mia Ira Incalcolabile fluì nel freddo ferro, accendendolo di una fiamma distruttiva, e la punta squarciò incendiando la sua carne maledetta, inchiodandolo al suolo.
    La nave stava lentamente perdendo quota, e al lampo delle folgori nell'uragano, realizzai che era finita.
    Senza lasciargli tempo di parlare, gli afferrai la mano destra e gli sfilai l'Anello dal dito: non oppose nemmeno resistenza.
    Per quanto io abbia imparato a odiare quel monile, esso mi ha servito per troppo tempo perché potessi rinunciarvi, e me lo infilai al dito medio della destra: la perla d'oro bianco sfavillò come di gioia per essersi riunito alla mia mano mutilata.
    Non ripresi i frammenti di Murasame: essa aveva servito fedelmente il suo scopo, e sarebbe andata sepolta con il mio nemico.
    A lungo fissai il suo volto, contorto in un sorriso di compiaciuta sorpresa: fino alla fine, un pazzo e un sadico amante di rovina e distruzione. Ora che è morto, posso soltanto compatire la sua miserrima esistenza.

    In quella, una parte del muro cedette: il vuoto d'aria mi afferrò e trascinò via. Potevo sentire ancora la risata di Clark Thrive dissolversi nel rombo dell'uragano, anche mentre la nave che precipitava sempre più lontana cadeva in pezzi. Realizzando che ormai la fine fosse giunta, strinsi le mani sul cuore, lasciando che l'Anello bevesse il mio sangue, e precipitai nel vuoto.
    Eppure, prima di perdere i sensi, mi parve di vedere un'ombra, come di un gigantesco uccello che si parasse sotto di me per prendermi al volo. Dovetti pensare d'essere impazzito, cosa del tutto normale per un uomo che sta per morire.
    Un nuovo, tremendo impatto mi fece perdere i sensi, e non vidi più nulla.

    TO BE CONTINUED


    Meno due
    Non è stato il capitolo che volevo, il finale dello scontro è stato un po' deludente per me, ma ehi, non tutte le ciambelle escono con il buco. Sono comunque soddisfatto del risultato, e dopo sette anni che lo aspettavo, non posso lamentarmi.
    Alla prossima settimana per il penultimo capitolo.

    Edited by Gaoh - 8/9/2021, 00:53
     
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    La conclusione è ormai prossima.

    Capitolo 49: Strade diverse
    Da qualche parte nell'Africa Nordoccidentale
    Mercoledì, 20 agosto 1999, 11:00


    I miei occhi furono accarezzati dalla mano rabbiosa di un sole spaventosamente vigoroso, e riaprendoli, mi stupefeci di ritrovarmi sull'erba fragrante, tra le colline e il deserto. A poco a poco mi tornò in mente lo scontro mostruoso che avevo recentemente vissuto, e mi compiacqui del fatto che tutto fosse veramente finito, anche se ero quasi indubbiamente spirato nella caduta della nave volante.
    A lungo mi domandai se il mio viaggio fosse effettivamente giunto alla fine, anche perché non riconoscevo il luogo in cui mi trovavo: ero dunque arrivato alla fine del sogno che è a tutti gli effetti la vita degli esseri mortali? Ero stato liberato da ogni odio e paura? Ormai non aveva più alcuna importanza: ero sfinito, nonostante mi fossi appena risvegliato nel mondo di là del mondo, e avevo i secoli eterni a mia disposizione per riprendermi prima di incamminarmi verso l'eternità che mi attendeva. Chissà, forse avrei finalmente incontrato i grandi del passato che mi avrebbero accolto come avevo visto in sogno, e nulla più mi sarebbe importato, fintanto che fossero stati con me.

    I miei pensieri di pace furono interrotti dal suono di passi in avvicinamento.
    Voltandomi verso nord vidi giungere, da dietro la collina, un uomo di statura elevata, di forme potenti, dalla pettinatura hippie afro spettinata, dalla barba incolta e dagli occhi bruni e profondi. Indossava una camicia bianca, dei jeans rovinati e non portava scarpe, ma aveva in mano uno straccio bagnato, e dava l'aria di essersi comunque lavato di recente.
    Ma non potevo non riconoscerlo: si chiamava Raphael Fitzgerald Quinton Ross terzo, cadetto dell'esercito statunitense, un amico fedele e costante, e disgraziatamente deceduto nella pericolosa impresa che si era appena conclusa.
    Al vederlo giungere ne fui rallegrato e al tempo stesso rattristato, perché la sua presenza era il segno evidente di dove ci trovavamo; col senno di poi, tutto andava comunque a nostro favore. Ora avremmo avuto tutto il tempo di rilassarci e svagarci prima di procedere verso la nostra destinazione ultima.
    Quando mi vide seduto sull'erba, sorrise.
    "Ben svegliato bell'addormentato!"
    Sorrisi nel sentire di nuovo quella voce: la sua giovialità non era stata mutata dalla morte, e anche nell'aldilà sarebbe stato un inguaribile mattacchione. La cosa non avrebbe potuto rendermi più lieto.
    "Salve, Ralph" risposi, lasciando che passasse il panno sulle mie spalle. Sinceramente, si curava troppo per me.
    "Resta fermo" mi disse, pulendomi la testa. "Sei ancora intorpidito"
    "Starò bene fra breve" replicai. "Mi dispiace solo per il fatto che Leona adesso sarà sola al mondo." Infatti, essendo noi due morti, la nostra comune compagna Leona Steinhart era la sola sopravvissuta, e senza dubbio stava seppellendo i nostri poveri resti sulla terra devastata per poi sciogliersi in lacrime sui nostri tumuli per ore. Povera cara, non gliene si poteva fare torto.

    "Ma che stradannazione stai dicendo?"
    Ralph mi guardò come se fossi improvvisamente uscito di senno. Risi.
    "Lo sai anche tu, Ralph. Siamo arrivati alla fine. Sono nel Nirvana con te, no?" Lentamente mi sdraiai sull'erba senza più prestargli attenzione. "Lascia almeno che mi riposi ancora per un quarto d'ora, e potremo incamminarci verso la casa di tutti i popoli."
    Ero già sdraiato, e potevo sentire una profonda pace avvolgermi...
    Quando all'improvviso sentii un pugno chiuso colpirmi in testa con violenza inaudita.
    Una galassia di stelle mi esplosione nel cervello, e un'ondata di puro dolore mi travolse dalla testa ai piedi.
    Urlai, balzando a sedere, la testa convulsamente stretta tra le mani, lacrimante per la fitta. E vidi Ralph, il mio migliore amico, fissarmi come si guarda un pazzo, il pugno sinistro chiuso: segno evidente che mi aveva colpito lui.
    "P-perché?" balbettai attonito.
    "Perché sì!" esclamò lui. "Stai farneticando! Casa di tutti i popoli? Nirvana!? Ti sembra il Nirvana qui!" disse sbracciandosi intorno.
    In quella, una voce di donna risuonò alle nostre spalle.
    "ABRAHAM!!"
    Voltandomi, vidi Leona correrci incontro, ansante, in lacrime, abbracciarmi ridendo e piangendo istericamente; pur essendo donna, da una come lei non mi sarei mai aspettato una scenata simile. Cionondimeno, accettai quell'abbraccio, assieme alla consapevolezza di essere ancora vivo.
    Quando quel primo momento di felicità fu ben insediato, ebbi modo di restare confuso di fronte a Ralph, sopravvissuto a quel colpo micidiale.
    La sua spiegazione non avrebbe potuto essere più logica e, francamente, un po' ridicola.
    "Giubbetto antiproiettile. Mai uscire di casa senza, dice sempre la mamma." A riprova di ciò mi allungò il sopracitato giubbetto, segnato all'altezza del fegato da un buco, nonostante fosse in Kevlar resistentissimo: l'arma di Clark Thrive era pur sempre di straordinaria letalità.
    Fui comunque felicissimo di quel risultato: nulla ci avrebbe impedito di restare sempre insieme.
    Superata che fu la giustificabile euforia di quel momento, Leona mi aiutò a rialzarmi.
    "Vieni" disse. "C'è qualcuno che non vede l'ora di rivederti."
    I miei occhi si sgranarono al realizzare quel che intendeva dire, e corsi assieme a lei e a Ralph, verso nord, dove avrei rivisto il più caro tra i leoni di mia conoscenza.
    Mio figlio.

    Mheetu.

    --------------------------------------------

    La nostra corsa, in meno di un'ora ci portò nei pressi di una giungla lussureggiante, costeggiata da una ricca oasi, dove svariate creature trovavano ristoro e refrigerio dal torrido caldo del deserto, e là, a sorvegliare ogni cosa stava una nobile famiglia di fiere. Una femmina di pelo arancione bruciato, un cucciolo dal pelo dorato e, soprattutto, un maschio color beige dall'opulenta criniera color nocciola, i cui occhi azzurri mi folgorarono. I loro musi affettuosi avevano una espressione che non mi sarei mai aspettato di rivedere ancora.
    Lui per primo mi corse incontro, ridendo fragorosamente: mi inchiodò al suolo, strofinando la testa contro il mio volto; le sensazioni familiari e amate di venire schiacciato e soffocato allo stesso tempo mi riportarono con la mente a tempi più felici. Anche Leonora si unì a noi, con il piccolo Kopa al seguito: non aveva neanche due mesi, ma era già frizzante e vispo come lo era stato suo padre quando aveva la sua età.
    Per molti lunghi minuti restammo legati in quel grande, immenso abbraccio comunitario: due uomini, una donna, un leone, una leonessa e il loro cucciolo, accomunati da un destino potente, eppure - realizzai con immenso dolore - mai abbastanza forte da opporsi a quello che doveva venire.
    Non volevo lasciarlo, anche se avevo ripetuto più e più volte che era necessario per il suo bene e per quello di tutte le Terre del Branco; sebbene una piccola parte di me agognasse di tornare in quelle contrade benedette, la mia parte più razionale mi ripeteva che non sarebbe stato giusto per me, in quanto uomo di una terra lontana, sprecare la mia esistenza in mezzo a bestie fino a confondermi tra di loro e rinunciare alla mia umanità.
    Perciò resi quell'ultimo giorno insieme quanto di più indimenticabile possibile.
    Corremmo insieme, uomini e bestie, verso sud; cacciammo insieme, cantando e ridendo, senza scambiare parole, e al termine di una danza di vita e libertà che ci aveva accompagnati per tutto il giorno fino al calare del sole, e che sarebbe rimasta nei nostri cuori fino alla fine del nostro peregrinare sulla terra, ci sdraiammo sulle rocce di una vasta altura dove eravamo arrivati.
    Stando a Leona, non eravamo lontani da un centro urbano in cui avremmo potuto trovare un passaggio per un aeroporto vicino, e da lì saremmo potuti tornare alla civiltà.
    Avevo già deciso che non sarei tornato a Londra o in qualsiasi altra parte dell'Europa: Ralph e Leona mi compresero al volo. Sapevano che non avrei mai trovato pace nel vecchio mondo, e non avrebbero avuto problemi a trovarmi un posto in cui restare, dove vivere in pace i giorni che mi erano rimasti, e forse mi avrebbero perfino trovato un lavoro con cui sostenermi, senza dovermi affidare nuovamente a qualcuno.

    Tutto questo pensare mi sfinì più di qualsiasi corsa, e mi addormentai serenamente, con Mheetu, il mio leone del cuore a farmi da materasso, il suono delle sue fusa a rombare affettuosamente nel mio orecchio.

    Al primo albore, giunse l'ora dell'estremo addio.
    Mi ero sinceramente preparato a dover affrontare una sfuriata da parte di Mheetu, ma sorprendentemente i suoi occhi dolcissimi erano colmi di approvazione. Assieme a Leonora, si dilungò in effusioni sulla mia persona per almeno dieci minuti, perché stavo tremando. Come si erano ribaltati i nostri ruoli. Un tempo lui mi aveva supplicato di non andarmene, e ora che la nostra libertà era stata vinta e avremmo potuto vivere insieme, ero io che non volevo andarmene.
    Non ressi: piansi su quelle teste pelose fino a formare un vero e proprio lago di lacrime ai nostri piedi. Li strinsi per l'ultima volta nel mio abbraccio, li guardai negli occhi un ultima volta, e per l'ultima volta parlai loro, dando il mio saluto.
    "Addio Mheetu. Addio Leonora. E addio anche a te, Kopa. Sarete sempre nei miei pensieri."
    I due leoni lambirono le mie lacrime facendomi tremare. Nonostante il loro sorriso, vedevo la mia stessa tristezza nel loro sguardo.
    "Arrivederci, Abraham" risposero insieme. "Arrivederci!"

    Ralph e Leona dovettero trascinarmi via per impedirmi di stritolarli tutti e due nel mio abbraccio.

    Quando il mio delirio passò, il sole si era già alzato, e noi eravamo già lontani dall'altura, ma potevo sentire i ruggiti armoniosi delle mie brave fiere, finalmente libere.
    Sottobraccio a Ralph e a Leona, risi sommessamente, mentre mi allontanavo verso est, all'orizzonte.
    Non avrei mai più rivisto Mheetu da quel giorno in avanti.

    TO BE CONTINUED


    E finalmente, ci siamo.
    Sono arrivato un po' in ritardo, ma ora non ho più di che preoccuparmi.
    L'ultimo capitolo settimana prossima riassumerà la storia di Abraham fino al 2014, anno in cui ho cominciato a scrivere questa Fanfiction.
    È stata un viaggio lungo e difficile per me, ma ormai ci siamo.
    Non credo che scriverò mai più una Fanfiction in questo forum, ma lascerò una bella eredità per tutti quelli che verranno.
    Alla prossima.
     
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    Ci sono voluti sette anni, ma sono arrivato al finale, finalmente.
    Nessuno lo leggerà mai, ma almeno ho risolto questo malloppone che mi sono portato dietro per tutto questo tempo.

    Capitolo 50: In Memoriam
    Da qualche parte nella foresta di Vancouver, Columbia Britannica
    Lunedì, 9 giugno 2014, 16:00


    Io, Abraham Colin Mist, che ho vissuto le avventure più straordinarie e combattuto le battaglie più terribili, mi sono svegliato stamattina, al termine di un sogno che non avevo avuto da molto tempo: stanotte in sogno ho rivisto la Rupe dei Re, e coloro che ormai sono passati oltre, essendo la vita dei leoni assai più rapida della mia, e ora non posso trattenermi dallo scrivere questo diario.
    Sono passati ormai quindici anni da quando ho lasciato le Terre d'Africa, e mi stupisco e mi vergogno di me stesso per non averci pensato più frequentemente; dopo una decade e mezzo, e ormai ritrovatomi ultraquarantenne, potrei definirmi libero di credere che sia stato soltanto un bel sogno, una visone voluta dalla folle mente di un pazzerello con una penna in mano che si sollazza scrivendo scempiaggini su un sito di queste cosiddette Fanfiction che ormai vanno così di moda nell'internet moderno.
    Il mondo come lo conoscevo è cambiato radicalmente, e nonostante tutto, nulla è veramente mutato: tante, troppe cose sono successe, e l'umanità ancora non dà segno di voler cambiare per il meglio. Non voglio seccarmi pensando a insignificanti dettagli, ma ancora mi sbalordisco di quanto stupidi noi mortali possiamo essere, sciupando le nostre misere esistenze in questioni improponibili su chi abbia ragione e chi torto. Rimpiango con tutte le mie forze di non essere rimasto nella Cunabula Mundi, ma in seguito alla battaglia finale con Clark Thrive, che ora compatisco per quanto penosa sia stata la sua esistenza, le ferite riportate, unica riprova che sia tutto successo veramente, mi hanno indotto a porre fine ai miei viaggi in cerca di avventure.
    Ciò non significa che io non abbia viaggiato molto, assieme a Ralph e Leona, che sono sempre rimasti al mio fianco: per prima cosa ho visitato le terre del Reno, dove, in una notte senza lumi ho visitato il Reno, e nelle sue acque ho gettato l'Anello del Nibelungo; non lo nego, anche se me ne vergogno, ho provato una piccola stretta al cuore nel separarmene, perché anche se da esso erano derivate le mie massime disgrazie, esso mi aveva permesso di conoscere il Branco della Rupe dei Re, e per questo sarò sempre grato all'Oro del Reno, nonostante sia stato una fonte inesauribile di male, e ora che esso è stato purificato del tutto, posso perdonargli ogni malanno.
    Successivamente, visitai l'Isola di Smeraldo, un luogo che avevo sempre voluto visitare da bambino, ma non ne avevo mai avuto l'occasione. Fu l'anno in cui mi presi la peggiore influenza della mia vita, ma ne è valsa la pena dico io, per godere un giorno intero della pioggia irlandese che rende l'erba d'Irlanda tale. La prima tappa in America fu New York, dove vidi le Torri Gemelle, quando ancora erano in piedi, in mezzo alle cui sommità Filippo il Piccolo, quel funambolico, fantasmagorico folle aveva passeggiato sui passi dell'alba. Per i quattro anni successivi viaggiammo da una parte all'altra delle due Americhe senza fermarci mai: incontrai così tanti di quei popoli che non mi basterebbe una settimana per elencarli tutti, figuriamoci poi a parlarne.
    Fu straordinariamente difficile trovarmi un posto in cui stare, ma alla fine l'ho trovato qui, nel freddo nord: il mio cuore sarà sempre legato alla neve e agli alberi, e qui nella bellissima Columbia Britannica mi sento a casa come mi ero sentito soltanto nelle Terre del Branco. In quanto al lavoro, mi sono rimediato una posizione di rilievo nella segheria provinciale qui vicino, dove sono recentemente diventato un dirigente. Una vita serena, lontano dai guai, passata a supervisionare il mestiere altrui e aiutando come meglio posso.
    Mi è concesso dire che non mi manca niente nella vita, a parte qualcuno con cui condividere i miei pensieri.
    Ralph e Leona si sono separati da me ormai da quasi dieci anni, e anche se di tanto in tanto vengono a farmi visita, la loro vita è completamente indipendente dalla mia: Ralph ha avuto la sua ultima crisi alla schiena l'anno scorso, e mi ha telefonato dicendo che con ogni probabilità non ne soffrirà altre in futuro, ammesso che morisse entro i prossimi trentadue anni. Lui e Leona si sono sposati circa quattro anni fa, non hanno figli, e ancora oggi mi dispiace di non essere stato presente al loro matrimonio, in quanto ero bloccato da una gamba ingessata dopo essere stato travolto da un albero, e anche se ormai sono guarito e posso di nuovo camminare, il mio medico legale ha detto che probabilmente zoppicherò finché avrò vita. Non ho neanche cinquant'anni e già sono costretto a camminare con il bastone. Sono stato ridotto a una patetica ombra di quello che ero.
    E nonostante tutto, non potrei essere più felice.


    --------------------------------------------

    Ogni tanto, nei miei sogni, rivedo ancora gli orrori che sono stati e che continueranno a tormentarmi indubbiamente per il resto dei miei giorni, e nonostante siano soltanto ricordi, fanno ancora male al mio povero cuore; ripensare a quante vite sono andate perdute perché io, da uomo, acquisissi la saggezza più sagace, mi fa sentire straordinariamente in colpa. Sono stato molte cose fino ad ora: un uomo onorevole, un viaggiatore, un assassino, una macchina di distruzione e un amico costante in ogni circostanza, ma non ero mai stato capace di nascondere i miei sentimenti. Rimpiango ancora tante cose, come il non essere stato presente per impedire le morti di Mufasa o di Mina, dei coniugi Ferguson e degli innocenti di Nairobi, che ricorderò sempre fino al giorno in cui potrò incontrarli di nuovo nell'aldilà, o di non aver potuto riallacciare i rapporti con Zira quando ne avevo la possibilità ai tempi del mio viaggio nelle Terre di Nessuno. Chissà quale destino aveva incontrato quella povera leonessa illusa? Potevo soltanto sperare che avesse trovato la pace. E in quanto a Mheetu e a Eleanor, potevo soltanto immaginare che la loro discendenza attraverso Kopa si fosse propagata da un confine all'altro delle Terre del Branco, e che i figli dei figli dei loro figli vivessero liberi e felici nelle ampie distese del Serengeti, sotto il cielo più azzurro e incontaminato della terra.
    Rimpianti destinati a restare tali, perché non credo che me ne andrò tanto presto dalla foresta: qui sono in pace, ma sento che verrà per me il giorno di affrontare un nuovo viaggio, verso orizzonti selvaggi e luoghi mai visti prima da uomo vivente; forse ci andrò, e scriverò una cronaca per lasciarla alla posterità, in modo che il mio passaggio su questo mondo non venga dimenticato. Non sarà di certo un bestseller, ma almeno lascerò qualcosa alle future generazioni, e che forse, dico forse, verrà mostrato nei musei o nelle scuole, ricordandomi come uno che non ha avuto paura di dare voce ai suoi pensieri o di essere criticato per aver pensato diversamente dagli altri.
    Sono un'esistenza ambigua tra gli uomini: per tutta la mia vita ho pensato di non appartenere, e più tra i leoni delle Terre del Branco che tra i miei simili mi sono sentito a casa, e forse, veramente sarò come loro, quando il mio destino si compirà.
    Fino ad allora, continuerò ad aspettare e a vegliare su questo mondo, per quanto mi sarà possibile: è il ruolo che mi è stato affidato, e un giorno, trovata la mia vocazione, potrò compierla senza riserve, senza rimpianti e senza lamentarmi, a differenza di come ho vissuto per troppo tempo la mia vita.
    Il tempo in cui io ero pieno di rabbia e paura è finito da un pezzo, e so che quando tutto si sarà risolto, potrò avere la mia pace.

    Io sono Abraham Colin Mist, che vivo nella foresta, nei ricordi, nel pianto, nella serenità, nei pensieri della mia gente...

    E in questo mondo meraviglioso.

    FIN



    Ho finito, non ci posso credere.

    Forse ho tagliato corto, ma vaffa. Questa è la mia storia.
    Il mio lavoro è finito.

    Ciao a tutti gli amici del Forum che mi hanno - più o meno - seguito.
    Grazie per essere rimasti fino all'ultimo.
    Grazie, e arrivederci.
     
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